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CRISI ECONOMICA E LOTTA PER IL REDDITO (edizione maggio 2012).

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Con il prolungarsi e l’accentuarsi della crisi economica, la questione del reddito e della sua distribuzione in questo paese è diventato un tema centrale, un oggetto di dibattito che viene discusso un po’ ovunque.

L’impoverimento progressivamente crescente mette infatti sempre più in luce che il divario esistente tra classi ricche e ceti meno abbienti aumenta a dismisura e ciò provoca una sempre più sdegnata reazione da chi viene sottoposto, dalle misure di “rigore” finanziario del governo, a sacrifici e rinunce sempre più pesanti ed insopportabili.

Già da qualche anno abbiamo sviluppato un ragionamento su questo argomento, una riflessione basata su poche semplici constatazioni, che sono sotto gli occhi di tutti, ma che nonostante la loro evidenza, vengono sottovalutate e spesso, anzi, volutamente ignorate.

Deficit pubblico e rimedi inadeguati.

A detta di chi ci ha governato negli ultimi decenni, anche prima dell’inizio di questa ultima crisi mondiale, il nostro paese soffre di una endemica inadeguatezza delle risorse finanziarie da destinare al “Welfare”, inteso in senso lato; in altre parole, ciò significa che la società non sarebbe (il condizionale è d’obbligo) in grado di produrre le risorse finanziarie necessarie per i servizi previdenziali, assistenziali, scolastici ecc..

Con una logica perversa e del tutto rovesciata, partendo da questo presupposto (l’insufficienza delle risorse a disposizione) – che tra l’altro risulta anche parecchio discutibile ad un’analisi attenta di alcuni dati – si sviluppa cos’ tutto il percorso “riformatore”, teso non già ad individuare nuove fonti di finanziamento del sistema, ma invece a ridimensionarne fortemente le prestazioni, fino a quasi annullarle.

Da qui nascono i continui interventi nel tentativo di ridurre la spesa.

Soprattutto sul sistema pensionistico, individuato come la causale di spesa che sembra pesare di più su tutto il complesso delle finanze pubbliche. Una serie continua ed ininterrotta di riforme che sono sfociate nella ultima di qualche mese fa, che ha portato (o porterà nei prossimi anni) l’età pensionabile ormai molto vicina ai 70 anni.

Ma anche sugli altri sistemi la logica è sempre la stessa, ridurre la spesa eliminando in continuazione servizi ed attività che invece dovrebbero essere considerate irrinunciabili per un paese moderno.

Due prime osservazioni.

  1. Ridurre la spesa tagliando le prestazioni (ritardata uscita dal lavoro, eliminazione di cattedre, eliminazione di posti letto ecc.) è una logica che si è dimostrata fallimentare: tanto è vero che storicamente le tutte le riforme che si sono succedute, totalmente ispirate a questo principio, non hanno potuto raggiungere l’obiettivo di ridurre il deficit.
  2. L’adeguamento del sistema di welfare di un paese moderno e democratico dovrebbe basarsi sul reperimento di nuove risorse per il suo finanziamento, al fine di ristrutturare i servizi ed adattare le prestazioni alle nuove richieste che scaturiscono dai mutamenti sociali (maggiore incidenza della popolazione anziana e quindi aumento delle esigenze assistenziali e sanitarie, ma anche di quelle formative ed educative dipendenti dallo sviluppo tecnologico e dalle nuove professionalità necessarie ecc.).

Reperire nuove risorse.

Incentrando il ragionamento sul bilancio del sistema previdenziale, con le nostre precedenti pubblicazioni abbiamo provato a ribaltare questa logica irrazionale, ponendoci il problema di come trovare fonti utili aggiuntive ed utili per sostenere il suo necessario finanziamento.

Per fare ciò abbiamo eseguito un’analisi non rivolta alla sua interezza, non come un insieme omogeneo e indifferenziato, ma rivolgendo una maggiore attenzione alle sue diverse componenti, ben diversificate e caratterizzate da differenze ben marcate.

Di solito non è questo l’approccio usato dagli analisti “ufficiali”, e non è un caso, perché guardare unicamente alle pensioni prese nel loro assieme, con la solita media del pollo, senza considerare le diversità tra le categorie e l’ammontare dei trattamenti che vengono riservati ad esse, è strumentale ai disegni di destrutturazione del sistema stesso.

Con questo tipo di analisi siamo giunti ad individuare qual è il punto di sofferenza maggiore e che determina l’endemico stato di crisi del sistema previdenziale.

Questa “difficoltà” infatti, non è certo data dall’insieme delle risorse assorbite dai trattamenti delle categorie più numerose, quelle del lavoro dipendente di livello esecutivo, per essere chiari.

Cifre alla mano, essa si deve senz’altro attribuire, invece, al peso delle prestazioni destinate alle categorie riferibili ai quadri dirigenziali, sia nel lavoro privato che nel pubblico impiego, che assorbono risorse largamente sproporzionate rispetto al numero di individui che ad esse appartengono.

Chi assorbe la maggior parte della spesa.

La tabella ed il grafico che seguono sono ricavati dagli ultimi dati diffusi da INPS.

Tali dati confermano sicuramente ciò che noi, sulla base di calcoli e stime non ufficiali, avevamo precedentemente ipotizzato.

La distribuzione percentuale della spesa previdenziale è la seguente:

 

numero pensioni

percentuale spesa

meno di 500€

14,0%

4,65%

500 – 1000€

31,0%

18,01%

1000-1500€

23,5%

23,40%

1500-2000€

14,5%

20,45%

sopra 2000€

16,5%

33,49%

sopra 8000€

4%

29,87%

Facendo qualche aggregazione ci accorgiamo che, rispetto alla spesa totale, che ammonta a 258 miliardi e 500 milioni di €., per un totale di 16 milioni e 500 mila pensioni:

  1. Il 45% (7 milioni e 425mila pensioni) che sta sotto i 1000 € assorbe solamente il 22% (58.558.500.000) della spesa totale.
  2. Al contrario, vediamo che le pensioni sopra i 2000 €, pari al 16,5 % del totale, per una spesa di 86.578.250.000 di € assorbono il 33,49% della spesa totale.
  3. Tra queste, il 4% delle pensioni (660.000 trattamenti) che superano gli 8000€ inghiottono da sole quasi il 30 % delle risorse totali (77.220.000.000 €).

Nelle precedenti pubblicazioni, non avendo a disposizione dati ufficiali di dettaglio, avevamo stimato che le pensioni sopra i 5000 € mensili in un numero di poco superiore al milione di persone.

I dati ufficiali ora ci confermano che la nostra stima si avvicinava molto alla realtà e probabilmente se avessimo a disposizione gli elementi di dettaglio ci accorgeremmo che i nostri calcoli erano sottostimati.

Per cui le nostre tesi e le nostre proposte, che in quella sede abbiamo formulato, vengono rafforzate nella loro validità, per cui riteniamo utile rinnovarle qui, utilizzando i nuovi dati a disposizione per ottenere un calcolo ancora più affidabile delle risorse che sarebbe possibile rinvenire.

Le nostre proposte.

Il nostro ragionamento, partendo dal fatto che esiste uno squilibrio di trattamento pensionistico tra i “quadri” dirigenziali di questo paese ed il resto del lavoro dipendente – constatazione come abbiamo visto largamente confermata anche dai dati ufficiali – ci fa considerare come unica strada percorribile per riequilibrare il sistema e allo stesso tempo per riuscire a finanziare agevolmente un sistema di welfare efficace e moderno, quella di intervenire sui trattamenti più alti, ridimensionandoli in una misura più equa.

Come abbiamo già sottolineato nei documenti precedenti questo non vuol dire affatto ridurre sul lastrico improvvisamente chi percepisce le pensioni più alte, ma esclusivamente porre dei limiti, anche piuttosto contenuti, a queste pensioni, che, per il loro importo non trovano alcuna giustificazione, soprattutto se si raffrontano alle pensioni medie continuamente taglieggiate e ridotte.

La nostra proposta si articola essenzialmente in due misure:

1 istituzione di un tetto massimo per pensioni ed retribuzioni.

2 istituzione di limiti al cumulo tra pensioni e a quello tra pensioni e redditi di diversa natura (lavoro, rendita ecc.)

Tetto massimo a pensioni e retribuzioni.

Il ragionamento che abbiamo esposto sulle pensioni ci porta a ritenere non solo praticabile, ma necessario riequilibrare i trattamenti istituendo un limite massimo all’importo di pensione erogabile dagli enti previdenziali.

Gli enti potrebbero così reperire le risorse necessarie sia a stabilizzare il loro bilancio che a finanziare misure di sostegno ai redditi più bassi, come ad esempio l’aumento delle pensioni sociali oppure l’istituzione di un reddito di cittadinanza spettante a chi è fuori dal circuito produttivo, perché estromesso (licenziamenti) o perché disoccupato.

Nei documenti precedenti avevamo stabilito la misura di questo tetto in 5.000 € mensili. Avendo ora a disposizione riferimento ufficiali più precisi, possiamo affinare il calcolo del risparmio ottenibile.

Sappiamo ora che le pensioni sopra gli 8.000 € sono circa 660.000. all’interno di questo “insieme” vi sono naturalmente anche numerose pensioni che superano di parecchio i 10.000 €, perciò possiamo tranquillamente attestare una media utile per il calcolo sui 9.000 €.

La spesa annua attuale per queste pensioni è, quindi, non meno di 77 miliardi (9.000 x 660.000).

Se applichiamo il tetto da noi proposto, la spesa scende a circa 43 miliardi (5.000 x 660.000).

Riepiloghiamo visivamente il risultato

 

 

Il risparmio ottenibile applicando il tetto alle pensioni è di circa 34 miliardi di € all’anno.

Si consideri che applicare il tetto di 5000 € a redditi di questa portato non produce un cambiamento sostanziale al tenore di vita di questi soggetti.

Essi infatti appartengono a categorie sociali che, normalmente, praticano attività che li porta a conseguire guadagni e profitti, anche in misura prevalente, da investimenti e rendite aggiuntive rispetto alla pensione; durante la loro vita lavorativa il loro reddito gli da modo di procurarsi agevolmente queste rendite, garantendosi una vecchiaia agiata a prescindere dal trattamento previdenziale che ricevono.

Tra l’altro essi molto spesso praticano attività di lavoro anche dopo il pensionamento, ricavando ulteriori compensi. Su questo ragioneremo più avanti.

Sarebbe per essi un “sacrificio” molto relativo la rinuncia ad una parte della pensione, dato che questa non costituisce la parte più importante dei loro introiti.

Riteniamo che questo tipo di argomentazione, con risultati ancora più eclatanti ed importanti, possa essere esteso non solo alle pensioni, ma anche alle retribuzioni.

Se i pensionati sopra gli 8.000 € sono, come abbiamo visto, circa 660.000, possiamo stimare che i soggetti in età di lavoro che percepiscono retribuzioni superiori a questo importo non possono essere meno di 1.500.000.

Attribuiamo a queste retribuzioni la stessa media di 9.000 € già adoperata per le pensioni.

Il calcolo della spesa per queste retribuzioni, annualmente, ci porta ad un importo di circa 175 miliardi. Con l’applicazione del tetto anche sulle retribuzioni la spesa scenderebbe a 97 miliardi, potendo così conseguire un risparmio di circa 78 miliardi.

Sommando il recupero ottenibile con il tetto alle pensioni più alte con quello ottenibile dal tetto alle retribuzioni avremmo un risparmio ingentissimo, superiore ai 100 miliardi l’anno.

Limiti al cumulo tra pensioni e altri redditi.

Come ben sanno le persone che godono di una pensione di reversibilità, queste pensioni sono sottoposte ad una serie di sensibili riduzioni quando chi le riceve percepisce già un’altra pensione.

Questa regola, però, assurdamente, non viene applicata a tutti.

Come abbiamo avuto modo di analizzare nei documenti precedenti, tutta una folta schiera di persone che hanno svolto incarichi dirigenziali pubblici e privati o che hanno svolto compiti di alto livello nelle forze armate, nella magistratura, nelle università, negli organi di informazione ecc. ecc., una volta collocati in pensione, si trovano a percepire oltre al trattamento previdenziale, altri redditi.

Questi redditi possono scaturire dalle attività che essi continuano a svolgere, sulla scorta dell’esperienza, dei contatti, delle professionalità acquisite negli anni di lavoro: consulenze, partecipazione e convegni, pubblicazioni e collaborazioni varie. Attività che sono proprie solo di certe categorie, che non appartengono certo a tutti i lavoratori che vanno in pensione, ma solo a quelli che fanno parte di certe categorie.

In moltissimi casi, questi soggetti percepiscono due o più pensioni, riferibili a periodi di lavoro svolti in diversi enti, società, con diversi compiti e funzioni. Naturalmente, data la loro posizione sociale, con retribuzioni (e quindi pensioni) molto alte.

Un’altra fonte non trascurabile di reddito per questi soggetti, proviene dalla possibilità che hanno avuto di effettuare investimenti ed acquisire rendite di vario genere. Anche questa prerogativa non è propria certo di tutti i pensionati, ma solo di quelli che avevano retribuzioni molto alte, che gli consentivano di destinare parte dei guadagni a questo tipo di impiego.

Ebbene, queste fonti di reddito, che si cumulano con il reddito da pensione, non sono motivo sufficiente per giustificare nessuna riduzione della pensione, come avviene per le pensioni di reversibilità.

Questa diversità di trattamento ci appare iniqua ed irrazionale, soprattutto in relazione a tutti i discorsi che si fanno sulla sostenibilità del sistema previdenziale.

Riferendoci al cumulo delle pensioni, sulla base dei dati INPS ora a disposizione, sappiamo che il numero di trattamenti pensionistici erogati sono 23 milioni e mezzo circa. Lo stesso INPS dichiara che il numero dei pensionati, come persone fisiche, ammonta a 16 milioni e mezzo circa.
Si desume che vi sono, quindi, 7 milioni di trattamenti che vengono percepiti da soggetti che già ricevono un’altra pensione.

Dai dati INPS 2011 ricaviamo che le pensioni di reversibilità sono un po’ meno di 4 milioni. E queste vanno escluse da qualsiasi intervento, perché già sottoposte a riduzione.

Di conseguenza i 3 milioni di pensioni che restano sono doppie, triple o anche quadruple, in capo agli stessi soggetti.

Possiamo dedurre che un buon numero di costoro appartengano alle categorie di pensionati con alti redditi di cui abbiamo parlato, per capirci appartengono al quel 4% che riceve pensioni superiori a 8000 €.

Ipotizziamo che almeno la metà di questi ricevano altre pensioni, altri compensi, altre rendite. Avremmo come minimo 300.000 persone che potrebbero essere sottoposte ad una riduzione dell’ammontare della pensione, in base al cumulo con altri redditi.

Le pensioni di reversibilità subiscono una riduzione progressiva, che parte da una pensione che è già il 60 % della pensione originaria.

Possiamo “divertirci” a calcolare a spanne una ipotetica riduzione così fatta anche per questo cumulo tra pensioni e tra pensioni e altri redditi.

Avremmo che solo riducendo al 60 % la pensione di quei 300.000 che abbiamo stimato la spesa annua passerebbe da 35 miliardi (media pensione di 9000 mensili x 300.000 persone) a 21 miliardi circa.

Un risparmio che già in questa ipotesi molto minima ammonta a 14 miliardi annui.

Anche in questo caso è valida la considerazione che una tale riduzione inciderebbe in misura minima sul livello di vita di queste persone. Chi ha un reddito annuo da pensione annuo di 100.000 euro e superiore, che, lo ripetiamo, si accompagna generalmente con altre fonti di guadagno, magari anche più sostanziose (investimenti immobiliari, speculazioni borsistiche ecc.) non risente sicuramente di una riduzione di 30 o 40.000 €, che marginalmente assume una importanza trascurabile.

Importante e rilevante, invece, è l’apporto che questo recupero assumerebbe agli effetti della gestione delle finanze pubbliche. Le somme recuperate e risparmiate potrebbero essere destinate a rifinanziare adeguatamente tutte le forme di sostegno al reddito dei ceti meno abbienti, oltretutto con indubbie ripercussioni positive sulla domanda interna, che, a detta di tutti, è uno dei caposaldi sui quali si dovrebbe basare il rilancio e lo sviluppo economico del pese.

Alcune considerazioni finali.

L’insieme di questa riflessione e di queste proposte è rivolto, come abbiamo già detto, a ribaltare la logica delle analisi e dei provvedimenti che si sono succeduti in questi anni, tutti orientati ad abbassare la spesa nel tentativo di arginare la crescita del deficit pubblico, di cui parte preponderante si continua a riferire alla spesa previdenziale.

Ma c’è un dato che emerge in contraddizione proprio con la pretesa incidenza dei costi della previdenza su quelli del complesso della macchina pubblica.

Se calcoliamo l’ammontare della contribuzione che il lavoratore dipendente medio versa nel corso della sua vita lavorativa abbiamo che, ad esempio, ad un salario di 20.000 € all’anno corrisponde una contribuzione di circa 260.000 € accumulati alla fine della suo periodo lavorativo.

La pensione calcolata con il sistema più favorevole, quello retributivo, ammonta in questo caso a circa 15.000 euro l’anno. Per poter “ammortizzare” i versamenti effettuati durante gli anni di lavoro, il pensionato dovrà vivere almeno fino a 83 anni. Gli indici internazionali assegnano all’Italia una durata media della vita di 81,4 anni, ben al di sotto di quel limite che è necessario per riavere tutto ciò che si è versato.

Questo “differenziale” tra quanto versato e quanto il lavoratore riacquista dopo il pensionamento, aumenta considerevolmente se si considera poi la realtà dei trattamenti che saranno erogati nel futuro.

Già con una pensione, calcolata con lo sfavore dato dal sistema contributivo, che ammonti al 60% della retribuzione, per recuperare tutto il montante contributivo versato, il lavoratore dovrà tirare a campare fino ad 87 anni, ben 6 anni più della durata media della vita in Italia.

E si deve tenere conto che questo calcolo è effettuato al lordo delle imposte, non su quanto effettivamente è “spendibile” dal pensionato. Riferendoci al netto un pensionato che percepisca 1200 € lordi, quindi circa 700 € netti, dovrà vivere fino a 94 anni per arrivare a riprendersi i contributi versati !

Queste osservazioni ci inducono a ritenere del tutto insufficienti i dati che INPS fornisce pubblicamente. Essi non sono utili, infatti, per giudicare sull’effettività del deficit previdenziale. I dati che vengono forniti, soprattutto se non vengono interpretati secondo una logica alternativa, paiono utili solo alle finalità antisociali che i governi di questo paese continuano a perseguire.

Sarebbe opportuno che l’ente fornisca più diffusamente e compiutamente i dati sull’entrata contributiva, per dare l’opportunità di valutare oggettivamente se, quanto e perché il sistema, come si sostiene ripetutamente, non possa garantire pensioni dignitose a tutti.

Resta comunque il fatto che, in questa fase di perdurante ed acuta crisi del sistema economico è necessaria, soprattutto da parte di chi si propone di agire per il suo superamento, una analisi alternativa sull’apparato del welfare, funzionale ad ottenere, attraverso di esso, una ridistribuzione più equa del reddito.

In questa direzione si incanalano le nostre proposte, che non hanno certo la pretesa di essere esaustive rispetto alla problematica, ma che hanno, crediamo, il merito di rendere evidenti, attraverso una loro quantificazione, le inique disparità che esistono e di suggerire una possibile linea di condotta e di lotta su questo tema.

 

9 MAGGIO 2012 COBAS – INPDAP