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Cristianesimo, capitalismo e rivoluzione

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Intervista a Diego Fusaro

16 settembre. Prendendo spunto dal dialogo tra Eugenio Scalfari e Papa Francesco abbiamo rivolto alcune domande a Diego Fusaro, una delle più brillanti menti filosofiche italiane. Ne è venuto fuori un discorso filosofico-politico di straordinaria densità.

D. Sollecitato da due interventi di Eugenio Scalfari (La Repubblicadel 7 luglio e del 7 agosto) Papa Francesco ha alla fine risposto il 4 settembre affermando che si auspica “un dialogo sincero e rigoroso con i non credenti affascinati dalla predicazione di Gesù di Nazareth”. Lei che idea si è fatto di questo Papa? Coglie anche Lei il sintomo di una incipiente riscossa della Chiesa cattolica dopo che la cosiddetta “società aperta” d’impronta illuminista l’aveva emarginata? E se fosse così, siamo davvero in presenza, qui in Europa, di un risveglio della religiosità?

Credo sia, nel complesso, troppo presto per formulare un giudizio generale sull’operato di Papa Francesco. Quel che è certo – e non sono ovviamente solo io a sostenerlo – è che il suo profilo è profondamente diverso da quello del fine teologo Ratzinger. Il nuovo Papa non si presenta tanto come un teologo dottrinario, con forti doti filosofiche: è – questo sì – un grande comunicatore, che alla semplicità sa unire una forte immagine di autenticità e, come usa dire, di “ritorno ai valori”.  Personalmente, credo che la Chiesa cattolica e, in generale, le religioni tradizionali continuino a perdere incidenza e seguito nello scenario del tardo capitalismo di cui siamo abitatori. Non dimentichiamoci che, dopo l’ingloriosa fine dei comunismi novecenteschi  (Berlino, 9.11.1989), nell’inizio del 2013 il balcone di San Pietro è rimasto tragicamente vuoto: Ratzinger è stato il primo pontefice della storia sconfitto dalla mondializzazione capitalistica, il tempo in cui gli ideali precipitano nel nichilismo dilagante e la religione è ridotta a questione privata. Non credo, pertanto, si possa parlare di un risveglio della religiosità, a meno che per religiosità non si intenda la teologia neoliberale e il fanatismo dell’economia. In questo caso – e solo in questo! – siamo nella fase storica più religiosa dell’intera storia dell’umanità. Il monoteismo del mercato non tollera altre religioni all’infuori di quella del mercato e, per ciò stesso, deve senza tregua ridicolizzare ogni forma di religione.

D. Ci pare degno di nota che nella sua risposta a Scalfari Papa Francesco sostenga che nemmeno quella di chi crede è una verità assoluta, nel senso di un ab-solutus, di svincolato, privo di relazione con verità altre. Per i cristiani è Gesù che ha indicato la verità, mentre la Chiesa ne ha fissato i dogmi. Quale verità possiamo opporre noi a quelle dei credenti?

Personalmente, quando ho letto lo scambio di lettere tra il Papa e Scalfari ho avuto l’impressione che le posizioni tradizionali si fossero, in certo senso, invertite: dialogico, aperto, denso di dubbi e di incertezze, il pontefice; arrogante, pontificante e senza la minima incertezza, Scalfari. Quest’ultimo parla dell’inesistenza di Dio con una sicurezza dogmatica che andrebbe resa oggetto d’attenzione. Francamente, io non credo che si debbano “opporre” verità a quelle dei credenti, ma piuttosto cercare un dialogo fecondo che sappia individuare un terreno comune, vuoi anche una verità comune su cui costruire qualcosa. Sicuramente con i cristiani si può dialogare ben più che con il “papa laico” Scalfari e con i cosiddetti laicisti, che non credono a nulla se non al mercato. Non si dimentichi che l’ateismo, oggi, ha come matrice principale non certo l’aumento della conoscenza scientifica, ma il processo di individualizzazione anomica che disgiunge l’individuo da ogni sostanza comunitaria. Infatti, come ho cercato di mostrare nel mio lavoro Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (capitolo II), il concetto di Dio è sempre anche metafora di un’unificazione simbolica della communitas umana. Di più, si pone come riflesso della solidarietà umana e della comunità etica dei credenti. La fede costituisce, allora, il presupposto trascendente di un umanesimo terreno antropocentrico incardinato sull’ideale del bonum commune come riflesso della solidarietà umana e della comunità etica dei credenti. Questo è già – mi pare – un fecondo terreno su cui dialogare con i cristiani nell’assunzione comune di una prospettiva comunitaria che contrasti l’odierna teologia neoliberale che, nel quadro della società reificata, sacrifica l’uomo sull’altare della valorizzazione del valore.

D. Tommaso, considerato sommo teologo cattolico, affermò cheIntellectus et ratio est potissime hominis natura,insistendo quindi che l’uomo può giungere a Dio attraverso l’uso della ragione non necessariamente come dono della Grazia. Nella risposta di Papa Francesco il concetto di ragione non compare se non di striscio. Di contro il concetto difede,di fede come dono, ricorre molte volte. C’è chi vi vede un ritorno alla teologia agostiniana.

Non so se di preciso si possa parlare, con diritto, di ritorno alla teologia agostiniana. Sicuramente il nuovo Papa non è affine alla visione dominante della ragione, ossia quella della ratio strumentale su cui si fonda l’odierna teologia economica. E questo –ça va sans dire! – è un aspetto ampiamente positivo, da valorizzare massimamente in una prospettiva che individui il nemico principale non nella fede, ma nellaratio strumentale stessa, che tutto riduce a quantità misurabile, calcolabile e vendibile sul mercato. Temo che questo concetto non passerò facilmente presso l’armata Brancaleone dei cosiddetti “laicisti” (Scalfari in primis). Contestando tutti gli Assoluti che non siano quello immanente della produzione capitalistica, il laicismo integralista si pone come il completamento ideologico ideale del fanatismo economico, in cui “The Economist” diventa “L’Osservatore Romano” della globalizzazione capitalistica e le leggi imperscrutabili del Dio monoteistico divengono le inflessibili leggi del mercato mondiale (per inciso, era già noto a Gramsci che, nel regime del capitalismo avanzato, la Chiesa e, in generale, la religione non sono più “potenza ideologica mondiale”, ma solo “forza subalterna”). In questo, mediante un illuminismo al servizio dell’oscurantismo, il laicismo rivela la sua natura di fondamentalismo illuministico svuotato della sua nobile funzione emancipativa e ridotto a semplice funzione espressiva del capitale e delle sue lotte contro ogni divinità non coincidente con il mercato.

Per i corifei del laicismo, instancabili lavoratori presso la corte del re di Prussia, la sottomissione alla superstizione religiosa dev’essere destrutturata in modo che domini incontrastata la sola superstizione economica. L’obbedienza servile deve essere riservata unicamente all’economia, alle “sfide della globalizzazione”, all’insindacabile giudizio del mercato, al vincolo del debito e alla dittatura delle agenzie dirating.

La contraddizione in cui è imprigionata la Chiesa cattolica con i suoi teologi è, invece, un’altra. Rigettando Marx, essa non può comprendere le radici di quel relativismo che pure ha il merito di combattere (rivelandosi, in ciò, infinitamente più emancipativa rispetto al fronte laicista dei vari Scalfari, Odifreddi e Flores D’Arcais). In tal maniera, essa precipita nel paradosso dell’accettazione del capitalismo e, insieme, della condanna del relativismo, che del capitalismo stesso costituisce la necessaria sovrastruttura ideologica. Riprendendo la formula di Nietzsche, quelle che finora sono state considerate le cause del nichilismo (relativismo, pessimismo, senso di impotenza, indifferenza), sono invece le conseguenze.

D. Papa Francesco sottolinea che “occorre confrontarsi con Gesù, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda”, in altre parole con l’incarnazione, lo “scandalo” della Croce e quindi la resurrezione. Qual è il suo giudizio sulla figura messianica di Gesù? E in che senso la Chiesa se ne è distaccata?

Nella mia prospettiva – che ho avuto modo di sviluppare nel già citato Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo –, Cristo è colui che cerca di tradurre la giustizia divina nella civitas terrena. Egli si sarebbe rivolto alla sola comunità ebraica palestinese, sottomessa al dominio militare dei Romani, interpretando la propria natura messianica come quella di un servo sofferente (Isaia, 53; Saggezza di Salomone, 2, 13-20) pronto a propiziare, con il sacrificio, l’anno di misericordia del Signore (Lc, 4, 14-30). L’ideale dell’anno di misericordia del Signore – che equivaleva alla remissione dei debiti, con annessa liberazione degli schiavi e redistribuzione comunitaria delle ricchezze private – trova corrispondenza in non poche testimonianze di Gesù: “se vuoi essere perfetto vai, vendi tutti i tuoi averi, dalli ai poveri e seguimi” (Mt, 19, 21); “è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli” (Mt, 21, 24). Lo stesso episodio della “cacciata dei mercanti dal Tempio” (Mt, 21, 12-13; Mc, 11, 15-17; Lc, 19, 45-46; Gv, 2, 13-16) si inscriverebbe in questo orizzonte di senso.

È in questa luce che deve essere letto il processo intentato contro Gesù per il reato di ribellione armata contro gli occupanti romani. Il “regno dei cieli” (basileia ton ouranon) coinciderebbe allora con il regno terrestre riscattato dalla giustizia divina. E se Gesù venne condannato e ucciso, ciò accadde perché, presentandosi come Cristo re, egli lasciava presagire una sommossa popolare in nome del regno di Dio. La fede per cui Gesù si immolò era la fede secondo cui il regno di Dio, già instaurato nell’alto dei cieli, doveva essere tradotto nell’aldiqua con comportamenti concreti e azioni conseguenti: “lo Spirito del Signore è sopra di me, e proprio per questo Dio mi ha unto, inviandomi a portare il lieto annuncio ai poveri, a proclamare la libertà dei prigionieri e la restituzione della vista ai ciechi, a promuovere la liberazione degli oppressi, instaurando l’anno di grazia del Signore” (Lc, 4, 18-19).

Che cos’é allora “l’anno di grazia” a cui qui si fa riferimento? Nella più antica storia del regno ebraico, l’organizzazione teocratica dell’economia e della società gestita dal tempio di Gerusalemme aveva reso impossibile l’emergere della piena proprietà privata di terre e di esseri umani. Nessuno, infatti, poteva intendere il possesso terriero assegnatogli dal Tempio, perché tutta la terra coltivabile era proprietà del Dio protettore del paese, di cui il tempio curava l’amministrazione, in nome e per conto di Dio. Questa concezione trovava la sua massima espressione nel cosiddetto “anno giubilare”, che ricorreva ogni cinquant’anni e che esigeva il ritorno di terre, case o uomini alla condizione giuridica originaria a loro assegnata dal Tempio.

Con il passare degli anni, però, l’anno giubilare era caduto in disuso, lasciando spazio all’accumulazione di ricchezze. Allora alcuni profeti, ad esempio Isaia, avevano invocato il ritorno straordinario di un “anno di grazia del Signore” a beneficio di una massa sempre più numerosa di indigenti e contro l’arricchimento illimitato. Gesù stesso avrebbe ripreso questo messaggio, assumendolo come il fuoco prospettico della propria predicazione e della propria azione: per tutta la vita avrebbe continuato a predicare che il regno di Dio era stato instaurato e che ognuno era chiamato a porsi sotto la sovranità di Dio, abbandonando i propri beni, la propria casa, il proprio mestiere, e a dedicarsi esclusivamente alla diffusione del lieto annuncio di Gesù. Egli voleva che tutti abbandonassero le proprietà private e riconoscessero che Dio era il loro unico proprietario, in nome di una distribuzione dei beni secondo i giusti bisogni di tutti. La conversione collettiva avrebbe posto fine all’appropriazione della ricchezza in forma privata, in una prospettiva in cui l’ideale del regno di Dio diventa il paradigma alla cui luce agire per attuare l’ideale della giustizia sulla terra: “beati coloro che sono senza potere, perché è per essi il regno dei cieli. Beati coloro che sono nell’afflizione, perché è ad essi che sarà dato conforto. Beati coloro che sono capaci di amare, perché saranno gli eredi della terra. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati” (Mt, 5, 3-6).

La vicenda della “moltiplicazione dei pani e dei pesci” (Mt, 14, 15; Mc, 6, 35-36; Lc, 9, 12) costituirebbe la più splendida prova di questa vocazione di Cristo, della sua testimonianza, vissuta fino alla morte, della necessità storica di una rivoluzione sociale espressa nella forma religiosa entro cui soltanto era possibile concepire, a quel tempo, mutamenti di relazioni tra gli esseri umani. Gesù ordina alla moltitudine affamata e stremata di sedersi sul prato, sparpagliandosi in gruppi di 50 o al massimo 100 persone ciascuno, in modo che in ogni gruppo ci sia un certo numero di persone che hanno portato le provviste. Ordina ai suoi discepoli di dividersi nei vari gruppi e di operare in ciascuno di essi la distribuzione dei pani e dei pesci delle poche ceste di provviste. Si scopre così che vi è cibo sufficiente per un pacifico pasto comunitario. È questo, allora, ilmiracolo della giustizia che, senza discriminare ed escludere nessuno, è in grado di vincere la povertà.

Perché la Chiesa si è allontanata da ciò? Avanzo un’ipotesi interpretativa. Non dimentichiamo che la Chiesa resta pur sempre una holding capitalistica: l’esaltazione cristica della povertà e del regno dei cieli convivono aporeticamente con l’adesione alle leggi del capitale. La figura-chiave è quella di Dr Jekyll e Mr Hyde: la stessa istituzione che elogia la povertà e tuona contro il capitale è quella che poi agisce capitalisticamente…

D. Tranne alcuni “eretici” come E. Bloch, pressoché tutte le correnti del movimento comunista hanno fatto dell’ateismo un dogma, potremmo dire una fede. Non ritiene che in tal modo si sia venuti meno agli ammonimenti di K. Marx abbracciando così l’ateismo di ascendenza illuministica e borghese?

Una riga dopo aver detto che la religione è Opium des Volkes, “oppio del popolo” – frase che tutti ripetono pedestremente –, Marx precisa che la religione è anche “protesta contro la miseria reale”, a cui contrappone l’ideale utopico di un regno dei cieli altro rispetto all’immanenza intessuta di ingiustizie. Per questo – così scrive Marx inPer la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1843) – “la miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale”: espressione della miseria reale, giacché se non vi fosse la miseria capitalistica l’uomo non necessiterebbe di proiettare la propria felicità in un altrove immaginario; protesta contro la miseria reale, in quanto la religione fa pur sempre balenare l’ideale di una giustizia altra rispetto a quella reale, e dunque può svolgere – per così dire – la funzione di nobilitatore trascendentale dell’azione rivoluzionaria. Bloch è, di tutti i marxisti del Novecento, colui che più ha colto questa valenza rivoluzionaria della religione e della sua “corrente calda”, antiadattiva e rivoluzionaria. Mai come oggi la prospettiva blochiana dev’essere riabilitata: oggi le religioni sopravissute nel mondo secolarizzato custodiscono un grandioso potenziale dipathos antiadattivo, già solo perché si rifiutano di accettare la teologia neoliberale che assume l’esistenza di un unico Dio, il mercato feticizzato.

D. La civiltà capitalistica proprio qui da noi, dove aveva mosso i primi passi e malgrado lo spettro del comunismo si sia dileguato, sembra aver imboccato il viale del tramonto. E’ pensabile secondo Lei immaginare una palingenesi senza fare i conti con le nostre radici cristiane?

Non mi pare, purtroppo, che la (in)civiltà capitalistica abbia “imboccato il viale del tramonto”… anzi, mi pare l’esatto contrario! Il capitalismo è oggi assoluto, in due sensi (per i quali rinvio a Minima mercatalia, cap. V): 1) tutto è merce, a livello sia reale (leggi “globalizzazione”), sia simbolico (non riusciamo a pensare più nulla se non tramite la mediazione della forma merce: debiti e crediti a scuola, capitale umano, investimenti affettivi, ecc ecc.); 2) non vi sono più limiti che contrastano attivamente il capitale (religione, etica borghese, lotta di classe, ecc.) e il suo principio della perversa mercificazione integrale del reale e del simbolico. Si è così consumato, disinvoltamente, il transito dal marxiano sogno di una cosa al postmodernosogno delle cose: esso rivela l’ormai avvenuta colonizzazione integrale dell’immaginario da parte della onnimercificazione dilagante del capitalismo assoluto. Perfino i sogni e i desideri ne risultano totalmente permeati: anche quelli più inconfessabili sono sempre abitati dalle fantasmagorie e dai capricci teologici del mondo ridotto a merce. Il divenire mondo della merce coincide con il divenire merce del mondo. Io sono convinto che la “palingenesi”, se vi sarà, dovrà avvenire valorizzando tutti gli elementi dell’anticapitalismo, compresi quelli della “corrente calda” del cristianesimo. Occorre riappropriarsi delle radici cristiane, ma poi anche di quelle greche, per poter fronteggiare l’odierno regno animale dello spirito pienamente realizzato nell’alienazione planetaria.

D. Papa Francesco insiste che la Chiesa è anzitutto ai poveri e agli oppressi, “immagine di Dio”, che deve portare il Suo annuncio. Sappiamo che come Vescovo, Bergoglio non è stato affatto indulgente con la Teologia della Liberazione, tuttavia egli pronuncia le stesse parole proprio dal soglio pontificio. Il sintomo di una svolta destinata a lasciare il segno o un mero riposizionamento temporale?

Credo che, anche in questo caso, sia ancora troppo presto per giudicare. Il giudizio filosofico dev’essere inevitabilmente crepuscolare, come il volo della nottola di Minerva richiamato da Hegel. Noto, tuttavia, che il nuovo Papa ha preso incondizionatamente posizione contro la criminale guerra in Siria (ennesimo episodio del vergognoso imperialismo americano), e questo già non è poco. Non basta, naturalmente, fare l’elogio dei poveri, né aderire a una mera ideologia miserabili stico-pauperistica: anche in questo, il messaggio di Cristo dev’essere seguito alla lettera, nel senso della già rievocata traduzione del regno dei cieli in terra. Marxianamente, i poveri e gli sfruttati non vanno elogiati in quanto tali, ma in quanto possibili soggetti di una lotta in grado di riscattarne le sorti rovesciando l’alienazione capitalistica. Essi – come il proletariato di Marx – possono essere l’algoritmo che traduce il particolare nell’universale dell’emancipazione umana: lottando contro la miseria capitalistica essi lottano, in pari tempo, per l’emancipazione del genere umano dal fanatismo dell’economia che sta portando alla distruzione della vita umana e del pianeta.

D. I cattolici non escludono evidentemente che Dio sia un’entità assolutamente trascendente, ma sottolineano come, con l’incarnazione, il Verbo fattosi carne, Dio sia entrato definitivamente nella storia, di qui, come sottolineava Hegel, il lato assolutamente immanentistico della religione cristiana. Papa Francesco insiste tuttavia che occorre “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”, ribadendo la distinzione tra la sfera religiosa e quella politica. Un alibi per perpetuare il sodalizio con le classi dominanti? Non è forse proprio qui che si misura la distanza con la Teologia della Liberazione? Papa Francesco parla sì di una Chiesa che sta accanto ai poveri, ma non fino al punto di aiutarli nella lotta per la liberazione dalle loro catene.
 
Il tema qui sollevato mi pare di importanza decisiva e di grande rilievo filosofico. Il richiamo a Hegel mi pare fondamentale. Se tradizionalmente il concetto religioso di Assoluto, coincidendo con la divinità monoteistica preesistente allo sviluppo storico, si presentava come originario e trascendente, i concetti correlati diAbsolute e di Geist tenuti a battesimo da Hegel sono l’esito di una dialettica integralmente storica e “monomondana”, che però non si risolve nella negazione del piano della trascendenza. L’esito di tale dialettica non può, infatti, essere semplicemente ricavato dalla successione empirica dei fatti storici, spesso accidentali e comunque mai ricavabili da una logicaa priori: al contrario, esso deve essere sempre pensato anche in termini logico-ontologici, secondo l’insegnamento della Scienza della logica. Conformemente con l’analisi della Trinità cristiana che Hegel svolge nelleLezioni sulla filosofia della religione, un Dio prima della creazione del mondo non è un Dio in senso autentico, perché Egli esiste solo nello svolgimento dialettico delle tre figure della Trinità. Ciò significa che, come Dio non esiste separatamente dalla creazione del mondo, così il piano logico-ontologico dell’Idea, che pure mantiene un suo carattere trascendentale irriducibile alla dimensione storica (una storicità senza commisurazione trascendentalistica sarebbe nichilistica), non esiste senza una necessaria correlazione con la storicità, con il dispiegamento sub specie tempori. La vichiana “storia ideale eterna” è la più sorprendente anticipazione dell’hegelianotrascendentalismo a base storica ma non storicistica: infatti, ponendo Dio come “garante” ontologico della storia, Vico evita lo storicismo – ossia la storia privata della sua fondazione ontologica – e codifica, con l’equazione verum ipsum factum, l’esigenza di ricostruire il percorso storico dell’autocoscienza umana. La distinzione a cui si alludeva – trascendenza/immanenza – mi pare dunque importante per evitare di precipitare in quello storicismo assoluto (immanenza del divenire storico) che finisce per rovesciarsi nella più grande apologia di ciò che è, come se appunto tutto quel che accade fosse razionale e giusto in quanto accade. Su queste basi, non è possibile operare alcuna giustificazione del mondo e delle sue storture: il mondo realmente dato è in totale contraddizione con la “trascendenza” e chiede di essere trasformato.