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Il Time e la “vendetta” di Marx

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Sulle pagine del settimanale statunitense Time è apparso un interessante articolo dedicato alle «profezie» marxiane. L’ha firmato Michael Shuman, corrispondente da Pechino. Nonostante il miserabile crollo dell’Unione Sovietica e il poderoso sviluppo capitalistico in Cina, eventi che secondo il marxologo francese avrebbero dovuto chiudere per sempre la scottante pratica-Marx, ecco che il barbone di Treviri torna in auge, e con lui la sua ancora numerosa schiera di epigoni specializzati in economia, ospitati nei talkshow per lumeggiare l’opinione pubblica intorno alla crisi economica che ormai da cinque anni impazza in Occidente. Perché nonostante? Piuttosto sarebbe corretto dire che anche quegli eventi confermano pienamente il materialismo storico di Marx (dei marxisti non mi curo). Ma su questo punto ritornerò dopo.

«Marx ha teorizzato che il sistema capitalista impoverisce le masse e concentra la ricchezza nelle mani di pochi, causando come conseguenza crisi economiche e conflitti sociali tra le classi sociali. Aveva ragione. È fin troppo facile trovare statistiche che dimostrano che i ricchi diventano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri» (La vendetta di Marx: come la lotta di classe prende corpo nel mondo, 25 marzo 2013). A sostegno della sua tesi il corrispondente del Time cita uno studio dell’Economic Policy Institute di Washington che dimostra in modo inoppugnabile come il reddito medio del lavoratore americano sia stato nel 2011 più basso che nel 1973, e come negli Stati Uniti nello stesso arco di tempo la ricchezza abbia subito un forte processo di concentrazione: il 5% della popolazione controlla il 74% del reddito nazionale. Naturalmente gli Stati Uniti rappresentano solo il vertice di una tendenza mondiale.

La ricchezza di pochi presuppone la miseria esistenziale (e quindi non meramente economica) di molti: questo non lo nega nemmeno il buon Papa Francesco, che difatti non fa che parlare degli ultimi, che, come da copione, saranno i primi nel Regno dell’Aldilà. Ma si tratta di creare il Regno dell’uomo nell’Aldiquà, non certo di lavare i metaforici piedi dei miserabili per far sentire loro «la carezza del Signore». Non si tratta, a mio avviso, di fare del Potere «un servizio» (non diceva qualcuno che bisognava «servire il popolo»?), quanto piuttosto di fondare sulla Terra la Potenza dell’uomo in quanto uomo. Critico il Santo Padre? No, evoco la possibilità della Comunità Umana, con ciò che ne segue, hic et nunc, sul terreno della prassi. Chiudo la breve e modesta parentesi “teologica”, che d’altra parte s’intona molto bene con questi giorni di «passione e di speranza», e ritorno al Time.

Scrive Shuman: «Questo non vuol dire che le teorie di Marx erano del tutto corrette. La sua “dittatura del proletariato” non ha funzionato come previsto. Ma le conseguenze delle diseguaglianze sono esattamente quelle che aveva predetto: il ritorno della lotta di classe». Incassiamo «il ritorno della lotta di classe» come auspicio e chiediamoci: ma davvero la marxiana dittatura del proletariato «non ha funzionato come previsto»? E qui ritorniamo al punto lasciato in sospeso: davvero la catastrofe sovietica e il gigantismo capitalistico della Cina depongono contro la teoria politica di Marx? Non credo affatto, e anzi ritengo che solo a partire dal materialismo marxiano è possibile comprendere entrambi gli eventi. Sulla scorta di quel materialismo, infatti, si comprende la natura radicalmente controrivoluzionaria dello stalinismo, espressione politico-ideologica di quel processo sociale che spazzò via il carattere proletario della Rivoluzione d’Ottobre, avanguardia, nella prospettiva di Lenin  e dei comunisti occidentali non ancora stalinizzati, della rivoluzione mondiale; e la natura nazionale-borghese della Rivoluzione cinese guidata dal Partito di Mao, uno stalinista in salsa cinese. Che tanto nella Russia di Stalin quanto nella Cina di Mao si costruisse il Capitalismo in guisa di «socialismo reale», ebbene questo ci dice che il senso ideologico più pregnante dello stalinismo riposa proprio in questa gigantesca mistificazione, non importa se fatta in buona o cattiva fede. Sul piano dottrinario lo stalinismo fu debitore delle posizioni stataliste di Lassalle. Com’è noto, Marx aborrì di definirsi “marxista” soprattutto nel momento in cui il «socialismo di Stato» di Lassalle, ridicolizzato nelle potenti pagine della Critica al programma di Gotha (1875), iniziò a prendere il sopravvento persino nel movimento operaio tedesco, in teoria direttamente influenzato da lui e dal suo amico Engels.

Nulla di strano, quindi, se il Nostro considera marxisti e comunisti personaggi che, in effetti, meritano la qualifica di statalisti, e, difatti, è un programma schiettamente statalista che essi propongono all’opinione pubblica e ai governi occidentali per tirare il Capitalismo fuori dalle secche della crisi economica. Com’è noto, Marx proponeva una sola monotematica ricetta: la lotta di classe rivoluzionaria, non in vista del Capitalismo di Stato, il quale nell’essenza non differisce un solo atomo dal Capitalismo «liberista-selvaggio» tanto esecrato dalla maggior parte degli epigoni di Marx, ma in vista del superamento del Capitale (pubblico e privato), del lavoro salariato (vedi articolo 1 della Costituzione Italiana), della merce e dello Stato, ossia, in una sola parola, dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento.

Come dico spesso, il cosiddetto «socialismo reale», non importa se con «caratteristiche» cinesi, coreane, russe, jugoslave, albanesi, cubane ecc., è un miserabile capitolo del Libro Nero del Capitalismo mondiale. Se, come giustamente osserva Jacques Rancière, «esperto di marxismo» [sic!] presso l’Università di Parigi interpellato dal Time, la classe operaia oggi è debole, e i movimenti di opposizione sociale che non cessano di prendere corpo hanno un carattere riformista e non anticapitalista, ciò si deve anche al tragico retaggio dello stalinismo internazionale.

Un po’ per celia un po’ per provocazione, qualche giorno fa ho chiosato una foto della serie Stalin ama i bambini che circolava su Facebook nei termini che seguono: «Gli stalinisti non avranno mangiato i bambini, come pensa Silvio Berlusconi, ma certamente hanno spolpato per decenni la stessa speranza del proletariato mondiale per una sua emancipazione. E i frutti maligni di questo orribile pasto si fanno ancora sentire. Eccome!» A suo modo il marxologo francese conferma la mia tesi.

La marxiana dittatura del proletariato non ha avuto ancora modo di essere messa alla prova, se facciamo eccezione 1) per la Comune di Parigi del 1871, sulla cui caratura rivoluzionaria ebbe forti dubbi lo stesso Marx, che pure ne fece un monumento storico e politico in quanto primo esempio di «iniziativa sociale» avente la classe operaia come suo fondamentale motore: «La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese» (K. Marx, La guerra civile in Francia); e 2) per l’esperienza sovietica russa, che tuttavia scontò i limiti che le derivarono dall’arretratezza sociale della Russia. Lenin sbagliò dunque a tentare il Grande Azzardo?

Sul problema della «maturità», ovvero «immaturità» della rivoluzione in generale e della rivoluzione russa in particolare, Max Horkheimer ha scritto parole assai pregnanti: «Di imprese storiche passate può essere affermato che i tempi non erano ancora maturi. Nel presente i discorsi sulla insufficiente maturità trasfigurano l’approvazione del cattivo esistente. Per il rivoluzionario il mondo è sempre maturo. Ciò che retrospettivamente appare come stadio iniziale, come situazione prematura, egli l’aveva considerata come l’ultima occasione. Egli è con i disperati che una condanna spedisce sulla forca, non con coloro che hanno tempo. […] Benché il successivo corso storico abbia confermato i girondini contro i montagnardi e  Lutero contro Munzer [e, aggiungo io, Stalin contro Lenin, gli stalinisti contro i comunisti], l’umanità non è stata tradita dalle intempestive imprese dei rivoluzionari, bensì dalla tempestiva saggezza dei realisti» (Max Horkheimer, Lo Stato autoritario, in La società di transizione, Einaudi, 1979).

Abbiamo visto come per il Marx del 1871 la società borghese fosse già «vecchia e cadente», nonché meravigliosamente gravida di un mondo pienamente umanizzato: cosa dovremmo dire noi 142 anni dopo? Chi è più vecchio, l’ubriacone di Treviri, che riusciva a concepire la possibilità dell’emancipazione generale in un’epoca storica nella quale in diverse parti del pianeta il Capitalismo conservava un carattere rivoluzionario, o chi teorizza il male minore nell’epoca della sussunzione totalitaria e mondiale dell’uomo e della natura da parte dei rapporti sociali capitalistici?  Non c’è partita!

«Se i politici non praticheranno nuovi metodi per garantire eque opportunità economiche a tutti», conclude il Time, «i lavoratori di tutto il mondo non potranno che unirsi. E Marx potrebbe avere la sua vendetta». Magari! Naturalmente non si tratta di “vendicare” Marx (già mi pare di sentire le crasse risate da parte della sua “essenza spettrale”), quanto piuttosto di mettere all’ordine del giorno, nei termini adeguati alla Società-Mondo del XXI secolo, il progetto di emancipazione delle classi dominate e, quindi, dell’intera umanità. L’impresa è, oltre che tremendamente difficile (lo stalinismo ha ben lavorato!), altamente rischiosa, sotto ogni riguardo; ma qualcuno conosce sfide prive di difficoltà e di rischi?

di Sebastiano Isaia