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LAVORO: NOTAZIONI DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI CARLO SMURAGLIA:

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Questa settimana parliamo di lavoro, visto che il tema sta riconquistando una certa centralità, più o meno a proposito, e considerato che si tratta di uno degli impegni principali per l’ANPI, tenuta alla salvaguardia delle disposizioni della Carta Costituzionale, tra le quali emergono quelle relative al lavoro, a partire dall’art. 1.

Passato l’entusiasmo per altri tipi di riforme, adesso ci si occupa, finalmente, del problema del lavoro, che noi abbiamo sempre considerato come prioritario. Ma è il modo che sorprende, perché la prima questione che si dovrebbe porre è quella dell’occupazione, dunque della ricerca di nuovi posti (dignitosi) di lavoro, visto che la disoccupazione ha raggiunto livelli intollerabili e così anche il precariato. Invece, il dibattito sembra essersi subito orientato in altre direzioni, quella della “eccessiva rigidità del sistema giuridico del lavoro” e delle difficoltà che si frappongono ai licenziamenti e quello del “superamento” – ormai considerato certo e irreversibile – dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Insomma, si parla soprattutto di regole, considerandole come elemento fondamentale per il rilancio delle attività produttive, lo sviluppo, ecc.

C’è chi pensa (e lo dice) che ciò che impedisce agli imprenditori stranieri (e in parte anche a quelli italiani) di investire in nuove attività produttive, sarebbe la disciplina troppo rigida del lavoro. Pochi si occupano delle formalità eccessive per l’apertura di nuove attività, degli ostacoli burocratici e così via; pochissimi, (anzi quasi nessuno) della corruzione e della mafia, che inquinano e distorcono il mercato del lavoro, la concorrenza e l’intero sistema produttivo. Davvero singolare, in un Paese in gran parte occupato da vari tipi di criminalità organizzata, che spesso spadroneggiano, taglieggiano, condizionano, estorcono; e in un Paese dove tutti lamentano la complessità e l’inaffidabilità della burocrazia e tanto si parla di “semplificazione” (ma poi facendo ben poco nella direzione giusta e talvolta approfittandone per sbarazzarsi di norme troppo stringenti e troppo “costose” in tema di correttezza e di sicurezza del lavoro, tanto per fare qualche esempio).

Vedremo cosa maturerà nel dibattito che si sta aprendo in Parlamento su una legge-delega, destinata, comunque, a diventare operativa solo dopo l’esercizio della delega (così come approvata dal Parlamento) da parte del Governo. Stiamo parlando dunque, di una discussione che avrebbe dovuto essere collocata al primo posto, anche temporalmente e invece potrà produrre effetti (se ci saranno) solo tra diversi mesi, per non dire fra un anno.

E questa è la prima distorsione. La seconda è, appunto, quella di una discussione sulle

“regole” del lavoro, come se questo fosse il vero e prioritario problema. C’è un’ansia, in alcuni commentatori, quasi spasmodica, per mettere mano alla disciplina giuridica del lavoro, ai progetti di riscrittura di gran parte del diritto del lavoro e addirittura al programma di una riscrittura totale dello Statuto dei lavoratori. Ora, su questi punti bisogna essere chiari. Tutto è aggiornabile e modificabile, come è ovvio, ma bisogna stabilire come, in quale direzione e con quali auspicabili vantaggi. Ciò che si percepisce – invece – è la spinta verso una forte flessibilizzazione del rapporto di lavoro, che peraltro è già in atto, in tempi di crisi economica diffusa e di globalizzazione. E molti (perfino il Presidente del Consiglio) hanno dichiarato che si tratta di “riscrivere” lo Statuto intero, e non solo l’art. 18 (quello dei licenziamenti). Un proposito singolare, visto che lo Statuto – una grande conquista degli anni 70 – è una sorta di appendice (o esplicazione) della Costituzione ed ha una valenza tutt’altro che formale e generica.

Non voglio richiamarmi alle lotte sindacali che hanno aperto la strada allo Statuto;

né alla lungimiranza di un Ministro socialista (Brodolini) che su di esso si impegnò fino in fondo; né all’impegno di giuristi seri e scientificamente attrezzati, a partire da Gino Giugni.

Non ritengo di aver bisogno di sottolineare il significato profondo, di questa prima e piena attuazione dei princìpi Costituzionali. Tanto meno voglio affermare che lo Statuto “non si tocca”, perché è ovvio che le trasformazioni economico-sociali suggeriscono qualche modifica, qualche aggiustamento (penso, ad esempio, all’art. 4) e qualche integrazione (è vero infatti, che lo Statuto fu redatto pensando soprattutto al lavoro dipendente e stabile e dunque occorre inserire garanzie e tutele anche per le altre tipologie di lavori). La verità è che si parte dall’idea di un mutamento radicale della stessa filosofia dello Statuto. Mettere mano al quale, nella sostanza, è quasi come mettere mano, con disinvoltura, alla Costituzione. Vero è che molti commentatori e politici si richiamano esplicitamente al “modello tedesco” considerandolo non solo ottimo, ma anche esportabile facilmente. Bisogna conoscerlo, quest’ultimo, e a fondo, per poterne immaginare la trasposizione in un sistema totalmente diverso. Oltretutto, bisognerebbe tener conto del fatto che il mini-job, da tanti esaltato, ha provocato anche molte e gravi distorsioni; e bisognerebbe anche considerare che diverso è il sistema della contrattazione sindacale, e che in molte aziende vigono forme di cogestione o codecisione (che da noi non esistono, nonostante l’art. 46 della Costituzione; e ci sarà un motivo). E forse ci si è dimenticati che in Germania hanno sempre avuto vita più facile le cosiddette “clausole di pace sindacale”, da noi considerate sempre limitative di un diritto costituzionale (lo sciopero). Insomma, se c’è da prendere qualcosa di buono da altri sistemi, non ci debbono essere remore, ma a condizione che vi sia compatibilità con le nostre tradizioni giuridiche e con il nostro sistema costituzionale. Senza contare che forse parlando di “modello tedesco” sarebbe più giusto fare riferimento ad un sistema economico che, fino ai recenti scricchiolii, è stato ed è ben più solido rispetto alla situazione del nostro Paese. Ma la verità è che ogni pretesto è buono per intaccare – direttamente o meno – il principio che il lavoro è “fondamento della Repubblica”, e ogni occasione è buona per parlare di “rigidità eccessiva” del nostro sistema, considerandola come l’origine e la base di tutti i nostri mali.

Dobbiamo insistere perché si torni alla ragione e soprattutto ai princìpi-guida della Costituzione; puntando sullo sviluppo, sulla crescita, sulla innovazione e sulla ricerca; combattendo le distorsioni dell’economia, della concorrenza e del mercato, prodotte da cause esterne e illegali (corruzione e mafie). Dopo di che, nonostante il disfavore che si continua ad ostentare nei confronti dei sindacati, varrebbe la pena di aprire con loro un confronto e col mondo giuridico una discussione, su un vero e proprio “piano” suscettibile di conciliare le esigenze dello sviluppo con le garanzie di sicurezza e di dignità che spettano, e devono spettare, alle persone che lavorano.