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Le nuove incrinature del pensiero unico non deviano il corso della Ue

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Forse non c’era bisogno che Angela Merkel annunciasse al mondo che la crisi economica è destinata a durare ancora qualche anno, almeno cinque, e soprattutto che non si ha la più pallida idea di quando finirà, spegnendo così definitivamente quella luce in fondo al tunnel che a qualche visionario era parso di vedere. I dati che ci vengono sfornati ormai quotidianamente da centri studi istituzionali e non lo confermano già in modo praticamente unanime.

Da ultimo ci si è messa anche l’Istat, sfidando apertamente il divieto a sconfinare nel campo delle previsioni sul futuro, essendo i ricercatori dell’Istat, secondo alcuni, tenuti soltanto a fornire analisi del passato o fotografie del presente. Lo ha fatto ovviamente per quanto riguarda l’Italia, ma il suo contributo a spegnere i fuochi fatui della ripresa è stato impietoso con quell’11,4% di disoccupazione prevista per il 2013 (cui andrebbero aggiunti i sempre più numerosi lavoratori scoraggiati a cercare lavoro che perciò sfuggono alle statistiche ufficiali), connesso con uno 0,5% negativo per quanto riguarda l’aumento del Pil. Su quest’ultimo versante perciò la recessione rallenterebbe, mentre, com’era prevedibile, la disoccupazione e l’inoccupazione dei giovani aumenterebbero a ritmi molto rapidi.

Consistenti segnali di crisi anche per l’economia tedesca

Ma l’uscita della Merkel va intesa, da un lato, come un ribadimento che, malgrado gli insuccessi per il resto dell’Europa, la Germania deve continuare a soffiare sul fuoco del rigore, lo stesso che infiamma fuor di metafora le vie e le piazze di Atene; dall’altro lato come una mossa preelettorale, visto che in Germania si voterà nell’autunno del 2013, intendendo così rassicurare i propri cittadini riguardo a ciò che più temono, la mutualizzazione del debito. E’ possibile anche una terza lettura della dichiarazione della Merkel. Infatti, così dicendo, la cancelliera tedesca vuole rendere meno grave agli occhi di tutti i nuovi dati che dimostrano un evidente rallentamento, quando non l’inizio di una caduta, della fin qui florida economia tedesca, iscrivendoli in un contesto europeo e mondiale che in qualche modo li attenua e li giustifica.

In effetti gli scricchiolii del gigante teutonico sono direttamente legati all’aggravarsi della crisi europea cui lo stesso ha contribuito da protagonista. Tra le imprese tedesche comincia e serpeggiare la sfiducia, elemento da non sottovalutare mai in quella “scienza triste” che è l’economia. Nel 2012, anche se l’anno non è ancora concluso, il quadro appare tutt’altro che positivo. Infatti a fine ottobre risultava che gli ordini alle imprese tedesche, provenienti dai paesi dell’Eurozona, erano diminuiti del 20% rispetto al 2007, cioè dall’inizio della grande crisi, come ormai è opportuno chiamarla. La situazione è critica anche dal punto di vista dell’export, solitamente motore trainante dell’economia tedesca. La Germania ha infatti spinto sempre più in là i confini del proprio bacino commerciale. L’area Euro conta oggi solo per il 35% sul totale delle esportazioni tedesche, il che significa una diminuzione di ben 10 punti nell’arco di cinque anni. La quantità delle esportazioni tedesche nell’Eurozona si è quindi ridotta al doppio di quella verso l’Asia, ove però il rallentamento programmato dello sviluppo cinese ridurrà la possibilità di compensare per questa via la perdita di capacità di assorbimento delle merci tedesche nell’area Euro.

I dubbi del Fmi sugli effetti delle politiche rigoriste

Se la cancelliera tedesca appare anelastica nelle sue politiche di rigore, spiragli e incrinature si aprono nei centri del pensiero e dell’azione del capitale finanziario mondiale. Nel corso dell’incontro annuale della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, tenutosi a Tokio tra il 12 e il 14 ottobre, sono emerse perplessità pesanti sulle scelte fin qui compiute in Europa per fronteggiare la crisi.

Il Fmi ha sostanzialmente ammesso di avere gravemente sottostimato l’impatto negativo sull’economia reale indotto dalle politiche di taglio della spesa pubblica. Si è rilevato, nel corso dell’incontro, che persino il moltiplicatore numerico utilizzato per calcolare gli effetti di tali politiche era sbagliato. Per la verità non ci voleva una medaglia Fields in matematica per capirlo, ma non è la prima volta nella storia dell’economia e in particolare di questa grande crisi, che la matematica, quando è usata male, ovvero a sostegno di tesi precostituite, provoca dei veri disastri. I presunti esperti avevano fin qui assicurato che tale moltiplicatore potesse essere pari allo 0.5, ovvero, per intenderci, a fronte di un taglio della spesa pubblica di un milione di euro, la perdita in termini di economia reale sarebbe stata di 500mila euro. Ma non è così. Da Tokio in poi gli esperti del Fmi ci dicono che tale moltiplicatore non è in ogni caso inferiore a uno e più probabilmente vicino a due, ovvero da due a quattro volte superiore a quello precedentemente usato.

Errore non da poco perché, sempre seguendo l’esempio di prima, il milione di spesa pubblica in meno diventerebbe due milioni di Pil in meno. Il che da solo dovrebbe dimostrare il fallimento, dal punto di vista della teoria e purtroppo soprattutto da quello della pratica, di tutte le teorie diffuse a piene mani sulla cosiddetta “austerità espansiva”. Al contrario è anche matematicamente dimostrato che le politiche rigoriste concorrono direttamente alla recessione economica e che quindi non possono in partenza raggiungere mai l’obiettivo che si propongono, ovvero la riduzione del rapporto fra il debito e il Pil. Se si taglia la spesa, specialmente in una contesto di crisi economica internazionale, questo rapporto è destinato a aumentare, come in effetti è accaduto in Grecia e in misura per ora minore nel nostro stesso paese, ove gli affetti delle politiche montiane hanno portato il rapporto debito/Pil, secondo i dati relativi alla fine del secondo trimestre 2012, alla cifra record del 123,7% (e si prevede che sia destinato a salire ancora e rapidamente proprio per gli effetti della cosiddetta legge di stabilità), che rappresenta il secondo volume di debito nei paesi dell’Eurozona ovviamente dopo quello del paese ellenico.

Per converso lo stesso Fmi ha riconosciuto che l’impatto positivo raggiunto da quei paesi che subito dopo l’esplosione della bolla immobiliare e finanziaria, ricorsero prontamente a politiche pubbliche espansive e di sostegno alla domanda interna – come in effetti è accaduto negli Usa dopo il fallimento della Lehman Brothers e in concomitanza con l’inizio del primo mandato presidenziale di Obama – è stato assai maggiore di quello previsto dallo stesso Fmi.

Come autocritica non c’è male. E’ difficile trovare, soprattutto da parte di un organismo da sempre posto a tutela della implementazione delle politiche neoliberiste, una bocciatura più spietata della stravagante tesi dell’austerità espansiva ed una contemporanea, benché tardiva, rivalutazione del keynesismo.

Parzialità e superficialità dell’autocritica del Fmi

Ma come si sa le idee giuste sono quelle che faticano di più a farsi strada nella densa giungla degli interessi materiali e delle abitudini consolidate. L’autocritica del Fmi finisce lì, senza dare luogo a un’effettiva correzione di rotta. La Confederazione Internazionale dei Sindacati (CSI – ITUC) ha giustamente notato la mancanza di conseguenza del Fmi rispetto alla sua stessa denuncia. Quest’ultimo infatti, anziché impedire “ai diversi paesi e ai suoi partner europei nella cosiddetta troika di continuare a dettare politiche di austerità” , opta per un semplice quanto inefficace addolcimento di queste ultime, limitandosi a raccomandare alle sole economie emergenti, ma non a quelle più sviluppate della vecchia Europa, di “usare politiche flessibili di sostegno alla crescita”.

La contraddizione logica è addirittura clamorosa. Secondo il Fmi chi conduce politiche di austerità rivelatesi anche matematicamente sbagliate, potrebbe perseverare diabolicamente nell’errore, mentre le economie emergenti che già per conto loro praticavano politiche di sviluppo sarebbero incentivate a farlo, seppure “flessibilmente”, terminologia quest’ultima diventata quasi magica nel Mainstream! Il concetto di politiche anticicliche pare essere ignoto agli esperti del Fmi. Il keynesismo, rientrato per un momento dalla porta, viene dunque nuovamente ricacciato fuori dalla finestra. Come se non bastasse, sia detto per rapido inciso, anche nell’occasione dell’incontro di Tokio, il Fmi ha perso l’occasione per procedere a quella riforma annunciata che dovrebbe consentire un seppure modesto spostamento dei diritti di voto al suo interno a favore dei paesi delle economie emergenti.

La posizione critica dell’OIL ed i suoi limiti

Sempre nella stessa riunione Guy Ryder, direttore generale dell’Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro, dopo avere ulteriormente stigmatizzato la sottostima delle politiche rigoriste nel loro impatto con l’economia reale, ha preannunciato che il prossimo e atteso rapporto della sua organizzazione rivelerà che i salari nell’ultimo decennio “non hanno tenuto il passo con la crescita della produttività” in ben 36 economie sviluppate. Questo ha ulteriormente comportato una modificazione negativa nella distribuzione del reddito nazionale fra salari e capitale, tutta a favore di quest’ultimo. Ovviamente questo ha avuto gravi ripercussioni immediate con la contrazione ulteriore dei consumi delle persone e delle famiglie e con la continua erosione del risparmio. Questi due ultimi fenomeni hanno riguardato anche l’Italia, come ci dice il già citato rapporto Istat.

Ryder osserva che per sanare il deficit delle partite correnti solo lo sviluppo della competitività può salvare dalla tenaglia alta disoccupazione/bassa crescita. Ma il problema è quale via si segue per raggiungere questa competitività e, aggiungiamo noi, in cosa essa può e deve consistere per essere efficace e per non tradursi in un mito irraggiungibile o in una pura intensificazione dello sfruttamento in tutte le sue forme possibili Anche Ryder conviene quindi che bisognerebbe agire sull’aumento della produttività. Ma qui il ragionamento del Direttore Generale dell’Oil comincia a traballare e conviene imboccare altre strade. Egli infatti afferma che ci sarebbe “bisogno di costi unitari di produzione più bassi”. Questi ultimi tuttavia, non potendo essere perseguiti attraverso la riduzione dei tassi di cambio, comportano immediatamente una riduzione dei salari. Ryder considera quest’ultima la scelta più rapida per aumentare la competitività, poiché la strada per l’incremento della produttività (specialmente se per essa si dovesse intendere quella generale del sistema e non solo quella del lavoro) appare lunga e incerta. Inoltre questa dovrebbe avvenire contemporaneamente in più paesi, perché se i “mercati di esportazione sono piatti anche una maggiore quota di esportazioni di prodotti nazionali può non controbilanciare la recessione a livello nazionale aggravata dai tagli ai salari”.

Pur tra tante contraddizioni Ryder arriva tortuosamente ad affermare un punto importante che dovrebbe essere tenuto ben presente, il che invece non avviene, e cioè che l’aumento delle esportazioni, anche qualora fosse possibile, (e difficilmente ciò può avvenire in tutti i paesi contemporaneamente, a meno di non supporre un modello teorico del tutto astratto di esportazioni/importazioni di merci tra loro perfettamente complementari con bilance di pagamenti reciprocamente in equilibrio) non controbilancerebbe comunque il taglio delle retribuzioni e le conseguenze recessive che questo comporta in termini riduzione della domanda interna.

Il comportamento del governo italiano

Le considerazioni che Tito Boeri aveva fatto qualche settimana fa su Repubblica sono perfettamente in sintonia con la prima parte del ragionamento del Direttore Generale della Oil, ma se ne discostano sensibilmente nelle conclusioni. La tesi che aveva sviluppato Boeri era infatti che era inutile che sindacati, governo e Confindustria perdessero tempo sulla questione della produttività, la cui soluzione nel caso italiano richiede misure complesse e tempi particolarmente lunghi. D’altro canto la possibilità di impiegare spesa pubblica per rilanciare lo sviluppo è inibita non solo dall’elevato debito, dice l’economista della Bocconi, ma dall’obbligo di pareggio di bilancio nel frattempo infilato in Costituzione. Tanto vale, per Boeri, concentrarsi sulla riduzione del costo del lavoro, altro mantra del pensiero neoliberista. Detto, fatto. Mentre Ryder afferma che: “ l’espansione della occupazione produttiva, il forte sostegno alla contrattazione collettiva, il mantenimento del valore del salario minimo e l’estensione della copertura previdenziale”, in Europa e segnatamente in Italia si procede in direzione esattamente contraria.

La riforma delle pensioni, con lo sciagurato corollario degli esodati senza lavoro e ancora senza pensione, dunque senza reddito alcuno, è stato il biglietto da visita del Governo. Ora, dopo la liquidazione dell’articolo 18, la Fornero è impegnata nel cosiddetto confronto sulla produttività, rispetto al quale per fortuna la Cgil questa volta sembra opporre una certa resistenza, ci auguriamo duratura. In quel quadro si discute apertamente di svuotare interamente la funzione del contratto collettivo nazionale di lavoro, eliminando persino quella parzialissima forma di indicizzazione dei salari che corrisponde all’aggancio all’andamento dei prezzi europei, depurati da quelli energetici. Se andasse in porto un simile proposito – che del resto era già contenuto nella famosa lettera della Bce del 5 agosto 2011 – cadremmo nella condizione per cui il contratto collettivo nazionale di lavoro potrebbe addirittura abbassare il valore reale delle retribuzioni, che per potere essere portate almeno alla pari dell’inflazione, dovrebbero rifarsi con la contrattazione aziendale o territoriale, cosiddetta di prossimità, che però può esserci solo laddove i rapporti di forza sono tali da permetterlo. In sostanza per questa strada tutta la tradizione sindacale italiana verrebbe rovesciata dalla testa ai piedi: la contrattazione integrativa da aggiuntiva diventerebbe a mala pena sostitutiva di quella nazionale, che perderebbe di significato.

Perché la Ue non devia dalla strada del rigore

Da quanto fin qui si è potuto vedere si sta forse ripetendo una situazione analoga a quella che ci fu tra il 2008 e il 2009, quando il mantra neoliberista del non interevento dello stato in economia vacillò considerevolmente di fronte al generoso salvataggio delle banche che seppe circoscrivere entro una certa misura il carattere devastante della crisi finanziaria, pur senza risolverla. Ovvero il pensiero unico della austerità espansiva scricchiola. Persino in Europa, dall’interno delle sue classi dirigenti, anzi delle sue elites, si leva qualche voce più consapevole. Ha destato una qualche sorpresa l’uscita di qualche settimana fa di Andrew Haldane, uno dei massimi dirigenti della Bank of England (come ci ha ricordato Vincenzo Comito durante il forum di Firenze) e noto studioso di problemi finanziari e monetari, che ha espresso simpatia per il movimento “Occupy Wall Street” per la sua critica allo strapotere della finanza ed ha affermato a chiare lettere che “…noi abbiamo assistito, prima, ad una crisi indotta dalle diseguaglianze e, da ultimo, alle diseguaglianze indotte dalla crisi…”. Un’affermazione tutt’altro che banale, specialmente se fatta da un grande manager finanziario, perché riporta le cause della crisi al livello dell’economia reale e delle diseguaglianze sociali enormemente aumentate dalla globalizzazione.

Ma sarebbe davvero ingenuo pensare che bastino questi ripensamenti per cambiare la situazione. Si oppongono al cambiamento tre grandi macigni, il blocco di interessi consolidati transnazionale che fa capo alla Germania, che cerca di ricostituire a proprio vantaggio un asse con la Francia; il sistema di governance autoritaria che nel frattempo la Ue si è data (e di cui abbiamo ampiamente parlato nel numero precedente di questa rivista), che non viene scalfita dall’incompiuta trasformazione dell’azione della Bce dovuta al dinamismo immesso dalla gestione Draghi; le incongruenze e le debolezze del movimento antiliberista europeo, che si sono evidenziate anche nel recente Forum sociale europeo di Firenze che voleva ricordare e rilanciare quello, ben più partecipato, del 2002 a dieci anni di distanza.

Le contraddizioni della politica tedesca

Abbiamo già detto come l’export tedesco si stia spingendo verso lidi più lontani. Questo sembra indicare che la crisi dell’Europa che riduce la capacità d’acquisto di merci di importazione tedesca da parte dei popoli europei, non sembra preoccupare più di tanto le elites politiche ed economiche di quel paese. Ma la collocazione geo-economica della Germania non può essere valutata solo in base alla direzione che prendono le sue esportazioni. Resta il fatto che oltre il 65% degli investimenti esteri delle imprese tedesche si collocano in ambito Ue. Il loro valore sarebbe messo seriamente a rischio a fronte di una implosione dell’euro. Inoltre, come osserva Il Sole24Ore, la Germania deve gran parte del proprio successo economico al reddito ricavato dalle banche tedesche grazie alla possibilità di investire parti consistenti del proprio surplus di risparmio in paesi dell’Eurozona che vendono titoli a più alto rendimento. Secondo le stime del giornale confindustriale ciò avrebbe comportato un trasferimento annuo non inferiore allo 0,75% del Pil dei paesi periferici verso la Germania dal 2002 in poi, cioè dalla entrata in vigore della moneta unica. Ma tutto questo ben di Dio si sta esaurendo per la deflazione e la recessione cui sono sottoposti i paesi della periferia d’Europa dalla sciagurata politica imposta dalla stessa Germania. Il grande paese tedesco vive quindi in questa contraddizione. Non può non comprendere il valore degli avvertimenti che gli giungono persino dal Fmi, non può fare a meno di temere che la sua stessa cocciutaggine rigorista possa prosciugare l’acqua dei suoi stessi bacini di guadagno, anche per questo vede di buon occhio gesti simbolici e augurali, come l’introduzione di simboli della cultura greca, nelle nuove banconote euro che entreranno in circolazione fra qualche mese.

D’altro canto non vuole abbandonare la linea di marcia principale che ha connotato in particolare il governo presieduto dalla Merkel, quello di proporre la Germania come interlocutore diretto nella sfida della competizione mondiale della economia, fidando sul primato come paese manifatturiero d’Europa, utilizzando il surplus succhiato alla periferia d’Europa anche per accettare dopo un lungo decennio un qualche aumento salariale interno che ridasse un moderato fiato ai consumi interni e soprattutto funzionasse da elemento di divisione con la condizione del resto del mondo del lavoro nel vecchio continente, nell’ottica antica, ma sempre utile, della creazione di una sorta di aristocrazia operaia su scala europea. Ne risulta una politica che muove a sobbalzi, ove in alcuni momenti il paese tedesco pare intenzionato a spingere verso la rottura dell’Europa o quantomeno verso la creazione di due aree monetarie e politiche ben distinte lungo l’asse Nord/Sud; in altri sembra moderare queste pulsioni e rilanciare il tema del mantenimento dell’unità europea. Questo modo di fare ha molte varianti e declinazioni. Ne ho visto chiaramente il segno nell’apparentemente duplice comportamento della Germania nel voto sull’estensione dei compiti della Bce, ove, mentre il rappresentante tedesco nel board votava contro, La Merkel si compiaceva della possibilità che le veniva offerta per un nuovo giro di vite nella governance.

Verso una ricostituzione dell’asse franco-tedesco?

Un aiuto a gestire meglio questa complicata politica può giungere dalla Francia, nella quale le contraddizioni dopo la vittoria di Hollande sono ancora superiori. I sondaggi non stanno trattando bene il nuovo presidente francese: il suo governo è rapidamente passato da un 53% di consensi all’attuale 35%. Se questo preoccupa relativamente data la stabilità che deriva dal sistema elettorale francese, il dato è comunque indicativo di una perdita di consensi, credo soprattutto da sinistra, ma anche sul versante opposto. Emblematico è il comportamento del nuovo governo sulla questione dell’aumento dell’Iva. In campagna elettorale Hollande era stato molto determinato nel promettere che quanto deciso in quel senso da Sarkozy sarebbe stato prontamente cancellato. Ma le cose non stanno affatto andando così. Infatti il governo francese ha deciso di stanziare 20 miliardi di euro di credito d’imposta per le imprese pensando di finanziare almeno la metà di questo provvedimento con un innalzamento della fiscalità indiretta. Naturalmente gli industriali non sono ancora contenti, di miliardi ne vorrebbero almeno 30 e subito, non dilazionati nel tempo, come invece prevede l’attuale governo. Perciò se la sinistra è delusa, la destra non è abbastanza soddisfatta. Resta il fatto che tra la misura del governo di Ayrault e quella presa da Sarkozy è difficile scorgere differenze sostanziali. Se da un lato l’autorevole Le Monde si domanda in prima pagina se “Hollande ha sottostimato la crisi?”, preoccupato, e giustamente, per le condizioni in cui versa l’apparato produttivo francese, dall’altro lato il famoso economista Thomas Piketty – cui dobbiamo ampi studi sulle diseguaglianze e l’andamento delle retribuzioni su scala mondiale – tra i primi sostenitori di Hollande in campagna elettorale, ha giudicato “completamente sbagliata” la riforma fiscale di Ayrault perché si concentra sul reddito anziché sul capitale.

In questo quadro indubbiamente difficile, come già sappiamo, Hollande è stato tra i primi a dire sì al fiscal compact; ha spalleggiato la Merkel nella inflessibilità di fronte alle preghiere di Samaras di allentare la stretta sulle misure di austerità da attuare in Grecia; ha complessivamente e bruscamente ridimensionato la propria spinta riformista, più velocemente di quanto avesse fatto a suo tempo Mitterand, commentano i più maliziosi. Come ha giustamente scritto Marcello de Cecco “Quelli che credevano in una maggiore simpatia di Hollande per le posizioni dei paesi mediterranei sono stati quindi delusi dalla realpolitik francese, che ha comparato freddamente un ritorno alla tradizionale leadership dell’Europa mediterranea con la necessità di mantenere una credibilità sufficiente a conservare spread “tedeschi” sui titoli francesi”, optando decisamente per questa ultima convenienza. Se a questo si aggiunge il fatto che dopo il 2013 l’Italia sarà comunque governata da una coalizione indisponibile a mettere in discussione i vecchi e i nuovi trattati europei, tra questi ultimi il fiscal compact, come si legge nella Carta di intenti dei “progressisti e democratici”, si comprende meglio perché la Ue non intenda affatto abbandonare la vecchia strada del rigore.

La politica, le scelte e i limiti della Bce

Alcuni autorevoli economisti, fra i quali lo stesso De Cecco, hanno salutato con molto entusiasmo le decisioni assunte dalla Bce sul tema dell’acquisto dei titoli di stato dei paesi in difficoltà. L’hanno addirittura definita “illimitata”, il che per la verità non è, in quanto un limite è quello della residua durata dei titoli a tre anni e soprattutto perché avviene con condizioni da imporre ai paesi che chiedono l’aiuto, che Draghi ha definito essere severe, anche se il loro contenuto specifico è rimasto indeterminato. De Cecco ha definito addirittura storica la svolta della Banca centrale, anzi “una pietra miliare nella storia della Bce”.

Francamente tutta questa enfasi mi pare eccessiva e destinata a ridimensionarsi quando a fronte delle prime richieste di qualche paese (la Spagna?, ma c’è chi spinge, come i prodiani di Prometeia e l’ex ministro Visco che sia l’Italia ad essere la prima a farlo) si renderanno chiare le “condizionalità” contenute nei memorandum da firmare. Non c’è dubbio che Draghi abbia forzato le maglie del regolamento della Bce, ma senza romperle. La sua è senz’altro un’interpretazione estensiva della mission della Bce, ma non ne rappresenta una stabile riforma, per la quale ci vorrebbe la modifica di quelle parti del trattato di Maastricht che concernono i compiti della Banca centrale. Del resto lo stesso Draghi è stato tutto sommato obiettivo e allo stesso tempo prudente quando ha affermato su Die Zeit (lo ricordava già Riccardo Bellofiore nel numero precedente della nostra rivista) che “rispettare il nostro mandato richiede a volte di andare oltre gli strumenti consueti della politica monetaria”. In altre parole il mandato resta quello, la lotta all’inflazione, ma questo non significa solo evitare che si innalzi, ma anche muoversi per produrre una “riduzione generalizzata e globale dei prezzi”, il che non può solo avvenire solo diminuendo i tassi di interesse, peraltro ormai già ridotti al lumicino.

Quello che ci vorrebbe in più Draghi non lo può dare, lo può solo fare capire, anche per autodifesa, ovvero un governo politico dell’Europa che ponga la questione della crescita al centro delle sue preoccupazione riregolando conseguentemente i compiti della sua Banca centrale. Probabilmente le sue parole, se prese, come meritano, sul serio, rappresentano il limite estremo, oltre il quale di per sé la strada non può proseguire, cui è arrivato un percorso di unità europea basato sulla convinzione di una progressiva trasformazione dell’unità monetaria in finanziaria, quindi in economica e infine in una effettiva unità politica. Questo disegno era illusorio fin dal suo sorgere, perché si rifiutava di considerare la necessità di rompere con il blocco di interessi economici e sociali che si sono posti al comando di un’unità dei mercati e dei mercanti; perché si basava sulla speranza di una progressiva e quasi automatica e naturale evoluzione delle forme dell’Unione; perché scambiava la capacità dell’euro di potere volare come un calabrone senza che esistesse una politica di bilancio comune come una condizione eterna, che invece la più grande crisi del capitalismo europeo pone oggi seriamente in pericolo.

In questo quadro il dinamismo pragmatico di Draghi consiste nel guadagnare tempo; nel trascinare in avanti fin dove è possibile l’esistenza dell’euro, mettendo nel conto a questo fine sterzate, per così dire, “keynesiane” compensate con altre che rendono ancora più autoritarie e a-democratiche la governance europea; nell’invocare, almeno implicitamente, la necessità di avere alle spalle un “sovrano politico” e di farne le veci quotidianamente in qualità di dirigente della principale istituzione economica della Ue.

Lo stato della discussione nei movimenti antiliberisti europei

Arriviamo in conclusione a quello che ho definito il terzo macigno – ma forse in questo caso bisognerebbe usare il termine più dolce di difficoltà – che si frappone a un cambiamento di strada nelle politiche economiche europee. Paradossalmente questo è rappresentato dalla condizione del movimento antiliberista, dalla indeterminazione delle sue proposte e anche dalle sue divisioni interne. Queste si sono palesate anche nel recente “Firenze 10 + 10” il meeting internazionale tenutosi nel capoluogo toscano tra l’8 e l’11 novembre che avrebbe voluto continuare e rilanciare spirito e contenuti che animarono quello che fu indubbiamente uno dei più grandi successi di discussione di massa, cioè il primo Forum sociale europeo tenutosi a Firenze nel 2002. Il documento finale mette a nudo queste difficoltà. Fissa una serie di iniziative e di appuntamenti importanti, che possono diventare una trama per stringere le maglie di un movimento tendenzialmente unitario sul piano dell’azione di massa europea, ma è privo di un’analisi comune e dell’individuazione di obiettivi chiari.

Questo livello di chiarezza è stato mancato. Uno dei limiti più evidenti è stata la differenza fra i movimenti del Nord e del Sud dell’Europa nel giudicare il tema del fiscal compact e dell’unione fiscale. Per i movimenti che agiscono nel Nord dell’Europa, ove il rapporto debito/Pil è più basso, il primo tema appare assai meno sconvolgente, mentre il secondo, comportando una reale mutualizzazione dei debiti su scala europea, implica che quei paesi si carichino sulle spalle una quota dei medesimi, con il rischio, che certamente esiste, di scaricarli esclusivamente sui più deboli. Appare più semplice parlare genericamente di “cancellazione del debito”, come se una mano invisibile – quella specularmente opposta a quella classica del mercato – potesse farlo senza lasciare più tracce negative per nessuno, che affrontare la questione nei suoi termini reali.

Se quindi è difficile anche soltanto pensare , ancora più realizzarla nella pratica, ad una sinistra europea che possa prescindere dai movimenti reali che in questi anni hanno tenuto viva la critica e la battaglia contro il neoliberismo, è altrettanto impossibile che questi trovino unità di intenti e capacità di coalizione sovrannazionale, fuori dall’implementazione di un nuovo pensiero di sinistra in nuove forme organizzate, dotate di massa critica e di dimensioni europee, capaci di stabilire una dialettica positiva biunivoca con i primi.

di Alfonso Gianni