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Marx e i suoi eredi. Commento alla lettura di Carlo Formenti: Tra post-operaismo e neo-anarchia

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La storica frattura fra marxisti e anarchici, durata per un secolo e mezzo, sta per  ricomporsi? Ancorché accomunate dall’obiettivo – la distruzione dello Stato borghese – le due correnti rivoluzionarie sembravano essersi irreversibilmente divise su come realizzarlo. Da qualche tempo, sostiene tuttavia David Graeber, uno dei più noti intellettuali libertari a livello mondiale, la distanza fra anarchici da un lato, autonomi, consigliaristi e situazionisti dall’altro, si è molto ridotta e, pur se i punti di vista restano diversi, è possibile che intrattengano un rapporto di complementarietà, più che di opposizione. Posto che le tre correnti chiamate in causa possano essere effettivamente riconosciute come rappresentanti ed eredi del marxismo rivoluzionario (molti non sarebbero d’accordo, ma qui, per semplicità, daremo per buono il punto di vista di Graeber), mi propongo di affrontare alcuni problemi sollevati dalla sua tesi”1.

Formenti inizia subito male perché rimuovendo “per semplicità” (?) il fatto che autonomi, consigliaristi e situazionisti (ACeS) possano effettivamente -o meno -essere consideratieredi del marxismo (che è rivoluzionario o non è) non è possibile capire se l'ipotesi di Graeber (“La storica frattura fra marxisti e anarchici, durata per un secolo e mezzo, sta per ricomporsi”) sia da considerarsi valida oppure no. 

Secondo punto. Forse non a David Graeber (e non a Carlo Formenti), ma dovrebbe essere pur noto che, nonostante i titanici sforzi compiuti per mistificare il contributo teorico di Marx ed accreditarne versioni di comodo, questi ha pur scritto qualcosa e di questo qualcosa, a rigore, si dovrebbe tenere conto: invece, a forza di leggere tra le righe si è finito per non leggere più le righe. E questo assomiglia al ben noto vizietto di certi “autonomi” che di Marx considerano molto più importanti gli inediti –come i Grundrisse -che gli editi –come il Capitale -.

Le opinioni di Marx sull'anarchismo e, più in generale, sulle tesi politiche care al movimento anarchico sono abbastanza note. Si pensi, per fare due esempi legati alle opere giovanili di Marx, alla critica verso Max Stirner contenuta nell'Ideologia Tedesca(1846) o a quella verso Proudhon contenuta ne La miseria della filosofia (1847)In Italia, molte delle opinioni di Marx ed Engels sull'anarchismo sono state raccolte da Einaudi in un corposo volume2 di quasi 600 pagine: non propriamente due righe scritte en passant. E senza contare la critica verso autori come Sismondi o Mazzini che potrebbero essere benissimo indirizzate anche verso il movimento anarchico (non è un caso che Marx considerasse la diffusione delle idee anarchiche e mazziniane nell'Europa Meridionalecome un segno dell'egemonia culturale del radicalismo piccolo-borghese3).

Dunque, sebbene accumunate dall'obbiettivo di abbattere lo Stato borghese, marxismo e anarchismo restano due “tradizioni” completamente diverse e per molti aspetti divergenti(anche se, naturalmente, essere diversi divergenti non dovrebbe implicare il doversi sparare addosso, come purtroppo è avvenuto in certe fasi storiche di grande tensione).

Dando per buona l'ipotesi di Graeber, Formenti riconosce che l'avvicinamento c'è stato, ma evidenzia che sono stati gli ACeS ad avvicinarsi agli anarchici, seppure in modo incoerente. E per poter dire che l'avvicinamento degli ACeS all'anarchismo è l'avvicinamento del marxismo all'anarchismo è necessario che David Graeber faccia un passo preliminare, ovvero quello scegliersi come interlocutori i marxisti che piacciono a lui.

A dire il vero, la cosa è assai più semplice di come la pongono Graeber e Formenti perché, banalmente, gli ACeS non sono affatto gli “eredi del marxismo” dal quale si sono anzi ulteriormente allontanati avvicinandosi all'anarchismo. Naturalmente, è possibile che abbiano ragione gli ACeS e che sia stato giusto allontanarsi dal marxismo per avvicinarsi all'anarchismo. Ma allora bisogna dirlo, senza alimentare la confusione e senza inventarsi alcun marxismo-anarchismo.

Come Graeber, anche i vecchi populisti rivoluzionari della Russia di fine '800 – e che erano, per taluni aspetti, gli ACeS di allora -pretendevano di arruolare Marx su posizioni non di Marx come quella di coltivare romantiche speranze – come ebbe a definirle efficacemente ilmarxista Lenin – di società pre post capitalistiche piccoloborghesi, artigiane e contadine… che tanto sarebbero piaciute, infatti, ai vari Proudhon e Sismondi, ma che tanto piacerebbero allo stesso Graeber o ad un altro maître à penser neo-anarchico, John Zerzan, di cui tanto si era parlato come ispiratore dell'anarchismo più radicale.

A tal proposito, vale forse la pena di fare un piccolo inciso. Poiché siamo anche il prodotto di ciò che ci ha preceduto -ovvero siamo anche un prodotto della storia4 dell’umanità – che senso ha auspicare il ritorno ad una presunta “vera essenza originaria dell’uomo” o ad una “comunità naturale originaria”, come suggerito dalle ipotesi dell’abate Morelly nel suoCodice della natura o dalle più recenti proposte, appunto, di John Zerzan o Murray Bookchin, in cui si viene proiettati indietro di qualche secolo (o di qualche millennio) verso una sorta di “giusnaturalismo senza contratto sociale” ovvero di un naturalismo primitivo in cui gli uomini girano per i boschi con la clava in mano?

Essere comunisti non significa desiderare la distruzione di tutto ciò che gli uomini hanno costruito (Theodore Kaczynski5) e neppure significa andarsene in montagna per cibarsi di bacche e radici6 (David Henry Thoreau7) Nella storia c'è già stata un’economia non mercantile in cui il singolo produceva solo per sé, così come ci sono già state forme mercantili semplici basate sul baratto o su forme di scambio in cui la moneta rappresentava solo un mezzo e non il fine. Ma poi gli uomini sono “usciti dalle capanne” ed hanno prodotto quello che hanno prodotto. Perché, ammesso e non concesso che accettassero di tornare nelle capanne, la storia non dovrebbe ripetersi in modo del tutto analogo? Tornare al punto di partenza significa, in definitiva, rimettersi nella condizione di ripetere tutto quanto si è già verificato (divisione del lavoro, società classiste, sfruttamento degli uomini e della natura…): la vecchia merda , direbbe Marx8.

“Prima, proverò a evidenziare gli elementi di convergenza fra gli anarchici e le altre componenti antagoniste, concentrando l’attenzione su quattro aree tematiche: critica delle tradizionali forme organizzative dei movimenti anti-capitalistici; ruolo dell’immaginazione nel processo rivoluzionario; transizione alla società post-capitalista; uso della violenza per la realizzazione degli obiettivi rivoluzionari. Poi tenterò, al contrario, di evidenziare le differenze fra anarchici e post-operaisti che, a mio parere, consistono soprattutto nel ruolo strategico che il concetto di composizione di classe svolge nell’analisi teorica dei secondi. Infine, cercherò di mettere in luce le aporie in cui quest’analisi si è invischiata, e come tali aporie rischino di appiattire il discorso postoperaista su quello anarchico.  

La critica della forma partito, delle sue logiche verticiste, della delega nei confronti di élite politiche professionalizzate, accomuna autonomi e anarchici a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Comune è il timore che un processo rivoluzionario egemonizzato da gerarchie professionali possa dare vita a strutture di dominio ancora più oppressive di quelle dello Stato borghese, analogo è l’impegno a creare istituzioni di democrazia diretta e partecipativa che esorcizzino il rischio (anche se persistono differenze nelle motivazioni: ideali e «di principio» quelle anarchiche, analitico scientifiche quelle degli intellettuali autonomi, che considerano la forma partito obsoleta rispetto alla nuova composizione di classe)”9.

Viene qui posta la “questione delle questioni”. In effetti, il tema dell'organizzazione rivoluzionaria (il partito, per semplificare) e del suo ruolo nello sviluppo del processo rivoluzionario costituisce la prima e principale “cartina di tornasole” su cui misurare convergenze e divergenze.

Su questo tema Lenin è pienamente marxista, mentre Pannekoek lo è solo in quanto puraaspirazione intellettuale (anche se Pannekoek può condividere alcuni elementi del contributo teorico di Marx e Lenin potrebbe condividere alcune osservazioni di Pannekoek o di Goerter). 

E perché? Perché il punto non è quello se vi sia o meno il rischio di una “deriva autoritaria”. Questo rischio esiste, evidentemente, ma non si esorcizza in termini organizzativi(ammesso che le forme assembleari, in cui si deve parlare davanti a centinaia o migliaia di persone, permettano effettivamente a tutti e non solo agli “oratori”, di esprimere le proprie idee; Md5 docet).

Come Marx ha chiarito ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte gli imperatori si possono anche eleggere; così come si possono eleggere i nazisti che poi provocheranno milioni di morti nei campi di sterminio, nella larga indifferenza popolare, e decine di milioni di morti, soprattutto sovietici, sui campi di battaglia. Come in piccolo accade oggi nella Grecia “culla della democrazia” dove i nazisti, spinti dal malcontento prodotto dalla crisi, godono di consensi ampi e crescenti soprattutto nei quartieri popolari.

È evidente che anarchici e ACeS sono strutturalmente incapaci di trarre le necessarie conseguenze da questi elementi di fatto. I marxisti, al contrario, le hanno tratte: non è laforma, ma la sostanza che determina o non determina l'esito “autoritario”. E cosa vuol dire “sostanza” in questo contesto? Vuol dire che se la transizione in URSS non si è sviluppata non è stato principalmente per colpa dei “crimini di Stalin” o principalmente per colpa dei “tradimenti di Trotzky”; e tanto meno è stato per colpa della “forma” del partito bolscevico; ma è stato essenzialmente perché non erano mature le condizioni storiche affinché il proletariato riuscisse a portare avanti il processo di costruzione della società nuova.

Tutta la polemica del consigliarismo tedesco-olandese non sono che chiacchiere ingrate di un movimento impotente, imploso su sé stesso – auto-frantumato -senza essere stato capace di resistere neppure allo scontro con la socialdemocrazia, contro l'unico partito – i “bolscevichi” – che ha saputo usare in modo magistrale tanto le forme di democrazia borghese – le Dume – quanto le forme di democrazia rivoluzionaria – i Soviet – e che èstato capace di difendere la Rivoluzione contro l'attacco di 14 eserciti stranieri, contro l'insorgenza bianca interna, contro l'ostilità di tutto il movimento socialista riformista e finanche contro le contro-insurrezioni di Makno e di Kronstadt. Tutto questo sarebbe stato possibile senza un legame straordinario tra “partito e capi” (come avrebbe detto Hermann Goerter), senza la più alta sintesi mai prodotta nella storia rivoluzionaria della contraddizione tra partito e classe?

E però a questo punto sorge una domanda: perché Graeber e Formenti espellono Lenin dalla tradizione politico-culturale del marxismo (essendone stato, a nostro avviso, l'insuperata espressione) mentre vi annoverano i “situazionisti” o i “consigliaristi”? Non è forse, questa, una ben precisa scelta di campo che nulla ha a che vedere con una valutazione obbiettiva in merito all'eredità del marxismo?

Dalle critiche anti-leniniste di Goerter sul rapporto tra “masse e capi” alla convergenza anarco-autonoma di cui parla Formenti… la critica della “forma-partito” -più che della “forma del partito” -è stata il punto saliente che ha distinto la tradizione marxista dagli ACeS. Chi è convinto che le masse si auto-organizzino spontaneamente sulla base di una certa “composizione sociale” o sulla base di un certo “bisogno” ovviamente non può convergere con chi ritiene che spontaneamente le masse producano sostanzialmente una coscienza di tipo economicistico-rivendicativo (ai tempi di Lenin si sarebbe detto, “tradeunionistico”) tipica espressione della cultura dominante nella testa dei proletari.

Sarebbe certamente sbrigativo liquidare gli ACeS sulla base degli scarsi risultati da essi realizzati. È vero: dalla scissione della KPD in poi è stato un processo ininterrotto di frantumazione progressiva che ha portato alla disintegrazione di tutto ciò che è passato “sotto le mani” degli ACeS. Questo è, sul piano pratico, il contributo dell'autonomismoconsigliarismo-situazionismo al movimento rivoluzionario ed al movimento operaio. Ma non ha prodotto i risultati sperati neppure il “leninismo” (se vogliamo usare questo termine per indicare l'esperienza storica che vede in Lenin il suo principale dirigente politico); ha permesso la realizzazione di processi rivoluzionari che hanno reso possibili risultati straordinari da ogni punto di vista; ha permesso l'avvio della transizione dal modo di produzione capitalistico ad una forma embrionale di modo di produzione socialista; ma non è riuscito a portare avanti questa transizione, che ad un certo punto ha cominciato a regredire trasformandosi da rivoluzione in contro-rivoluzione.

“Ciò detto, è indubbio che gli anarchici abbiano lavorato più concretamente per mettere in pratica le proprie idee. Ispirati alle descrizioni antropologiche delle civiltà precapitalistiche e alla pratica femminista, i modelli elaborati da Graeber e altri hanno di fatto egemonizzato (ma a loro non piacerebbe il termine!) la recente cultura di movimento (dagli Indignados spagnoli a Occupy Wall Street): rifiuto di leader designati e permanenti; ricerca del consenso attraverso il confronto e la mediazione (non si vota per non provocare frustrazione nelle minoranze); privilegiare i piccoli gruppi autonomi e autorganizzati (comuni) dove è più facile applicare il principio di orizzontalità; visione «spontaneista» della diffusione dei movimenti (una volta sperimentate le pratiche di azione diretta, le persone le imitano spontaneamente, diffondendole per via virale). Su questi punti c’è totale convergenza con i neosituazionisti (che mettono però l’accento sulla produzione di «eventi» simbolici, in grado di accelerare i processi di «contaminazione»). I postoperaisti si accodano a loro volta anche se, troppo sofisticati per condividere certe ingenuità, lasciano trasparire qualche imbarazzo, come quando Franco Berardi scrive che «il nostro compito non è organizzare l’insurrezione, che è già nelle cose», per poi smentire parzialmente questa professione di fede spontaneista, allorché aggiunge che si tratta di suscitare la coscienza dei precari cognitivi e organizzare la loro collaborazione politica (perché suscitare e organizzare, se l’insurrezione è nelle cose?)”10

Formenti propone una carrellata di questioni che, come meglio non si potrebbe, delineano la distanza siderale dal marxismo delle idee dominanti negli odierni movimenti che vengono spesso assunti, in modo acritico e con molto provincialismo, come modello di riferimento: l'apologia dello spontaneismo, il rifiuto di ogni direzione politica, l'iper-movimentismo, la rimozione della memoria storica (e teorica)… sono tutte cose da guardare con estrema benevolenza perché permetteranno la rimozione totale anche solo del ricordo di questi movimenti d'opinione dopo la loro inevitabile crisi.

L'innamoramento della novità fine a sé stessa, l'eclettismo spinto agli estremi e soprattutto lo sradicamento di ogni patrimonio culturale -cose del tipo “non possiamo avere riferimenti perché verremmo subito etichettati” -testimoniano l'ingenua ammissione della completa subalternità alla cultura dominante che invece riscrive costantemente la nostra memoria storica sostituendola con la propria… sono tutti elementi antitetici al marxismo, fortemente ancorato al legame indissolubile tra teoria rivoluzionaria e movimento rivoluzionario.

Senza teoria rivoluzionaria non c'è movimento rivoluzionario, ecco il punto. Ilmovimentismo, al contrario, è il fondamento del neo-riformismo, del radicalismo piccolo-borghese, dell'esistenzialismo… E' anche una forma di nichilismo che alimenta la sofferenza psichica di individui che si muovono come sciami non come comunità, guidati da pensieri che spesso non sono da essi prodotti, ma in essi indotti, così come i lorodesideri che si sostituiscono ai loro bisogni (perché si può desiderare anche ciò di cui non si ha bisogno ed anzi sta qui il fondamento del marketing), tutti uguali – nella loroapparente diversità – come le merci che comprano. 
Individui protesi all'affermazione di sé stessi, bisognosi di eventi spettacolari capaci di placare le richieste del proprio ego continuamente stimolato dai messaggi provenienti dalla cultura dominante o, per meglio dire, dalla sottocultura appositamente creata per noi dalla classe dominante.

In questa esaltazione ultra-individualistica, turbo-capitalismo e anarchismo finiscono per sovrapporsi e questo spiega il diffondersi nei vari movimenti (Indignados, OWS, centri sociali…) di egemonie culturali che potrebbero apparire “anarchiche” e “libertarie”, ma che in realtà sono molto influenzate da una cultura dominante intrisa di individualismo(ovviamente senza lo sviluppo di quelle che Marx avrebbe definito “libere individualità”11).

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L'aspirazione comune ad un po' tutte le varie espressioni di A-ACeS è quella di creare il mondo nuovo dentro quello vecchio (autonomia, contropotere…). Ma tentare di rovesciare la sovra-struttura senza essere capaci di rovesciare la struttura significa non rendersi conto che il processo della liberazione intellettuale e spirituale è impossibile senza quello della liberazione materiale. E la liberazione materiale non si realizza certo sostituendo l'applauso con con lo sventolio delle mani12 o abolendo il voto in assemblea (“per non frustrare le minoranze”), abolizione che peraltro si può leggere anche in questo modo: non si vota mai così nessuno perde mai tutti vincono sempre (per soddisfare il topic della cultura capitalistica, essere “vincenti”); nessuno è tenuto a mettere in discussione i propri comportamenti e -dio ce ne scampi! -a modificarli in comportamenti che non condivide. In altri termini: ognuno fa semplicemente, sempre e comunque, quello che vuole. 

Il “principio di maggioranza”, tanto caro alla democrazia borghese (ma anche a quella antica), è certamente criticabile dal momento che, in un'assemblea di 100 “indignados”, 51 possono decidere – con un voto a maggioranza -di impiccare i 49 che non la pensano come loro), il che si configurerebbe come un procedimento legale dal punto di vista democratico-formale, ma piuttosto discutibile sul piano umano e politico. 

Ma voto o non voto le maggioranze e le minoranze restano perché magari nella stessa assemblea di 100 “indignados”, 99 la pensano in un modo e uno la pensa in un altro. Va bene, non si vota per non frustrarlo, ci mancherebbe: poi però che cosa faranno i 100? Probabilmente, i 99 si muoveranno coerentemente con quello che pensano e così farà l'uno. Tanto più che, non avendo votato, non c'è una sintesi che possa andar bene contemporaneamente ai 99 e all'uno. Ed ecco allora l'uno si sentirà comunque frustrato dal fatto di essere rimasto da solo a fare la cosa che voleva fare e saremmo “punto e a capo”.

Qui siamo oltre anche all'assemblearismo più spinto; siamo al semplice scambio di idee. Una cosa molto bella, certo, ma con la quale dopo una rivoluzione “indignada” o “occupada”, non si sarebbe probabilmente capaci neppure di decidere dove costruire un nuovo ospedale per paura di “scontentare” e “frustrare” coloro che vivono sul terreno su cui dovrebbe erigersi. A quel punto che si fa? Votare non si può. Ognuno fa la sua azione. I sostenitori della costruzione mandano le ruspe, gli oppositori indigeni le fanno saltare con il tritolo. Un po' di “frustrazione” viene fuori lo stesso. O no?

“La convergenza si fa più evidente nelle due aree tematiche, strettamente interconnesse, del ruolo rivoluzionario dell’immaginazione e della transizione al postcapitalismo. Per Graeber, la riscoperta dello slogan sessantottino sull’immaginazione al potere si ammanta di accenti ottimistici che sarebbe eufemistico definire sfrenati. Nei suoi lavori leggiamo frasi di questo tenore: «L’affermazione che un altro mondo è possibile è un atto di fede»«L’ottimismo è un imperativo morale»«Il neoliberismo è un piano politico per annientare l’immaginazione»«Il movimento contro la globalizzazione si è dissolto perché non ha saputo riconoscere le sue vittorie»13, «Ci sono buone ragioni per credere che il capitalismo, nel giro di una generazione, non esisterà più»”14.

Ullallà… Qua si spara grosso… Soprattutto quella di aver perso perché non si è capito di aver vinto è interessante… Si osservi come sul tema “vittoria” Graeber si trovi in perfetta sintonia con Negri che l'ha sparata ancora più grossa in occasione della prima vittoria di Obama15. Qualcuno avverta i capitalisti che stiamo vincendo noi e che non continuino a comandare all'oscuro di tutto.

“All’ultima professione di fede fanno eco due affermazioni di Franco Berardi, secondo cui «La situazione sembra volgere verso il crollo»,e «Il capitalismo entra nella sua fase agonica»; mentre lo stesso Bifo rilancia il tema della centralità della guerra degli immaginari scrivendo a sua volta che «Il collasso europeo non è provocato da una crisi economica e finanziaria ma da una crisi dell’immaginazione sociale»16.

Che dire? Nessun proibizionismo, d'accordo. Ma che almeno si faccia un uso consapevole delle sostanze.  

“Nessuno mette in dubbio che il progetto neoliberista si fondi (anche ma non solo) sullo sforzo, finora coronato da successo, di annientare, non la fede, ma anche la più tenue speranza che un altro mondo sia possibile (un classicissimo esempio di egemonia gramsciana!), ma ciò non giustifica il giudizio secondo cui il terreno decisivo dello scontro di classe sarebbe oggi quello dell’immaginazione. L’idea che il capitalismo sia arrivato alla fine, motivata dal comportamento «folle» dei governi che affrontano la crisi con politiche che ne aggravano le cause, non tiene conto del fatto che ciò, nella storia del capitalismo, si è ripetuto innumerevoli volte, dalla grande crisi della seconda metà dell’Ottocento a quella del 1929. L’intera storia del capitale è punteggiata da simili catastrofi e follie, ma il «crollo» vagheggiato non è mai arrivato, né basta spostarne le cause dalla caduta del saggio del profitto al collasso dell’immaginazione per realizzare il sogno”17.

Quando Formenti, come in questo ultimo passo, mette sullo stesso piano la legge della “caduta del saggio di profitto” e la “mancanza di immaginazione” di Berardi mostra, oltre che un bel coraggio a fare questo accostamento, anche una discreta ignoranza perché chiunque abbia letto Marx anche solo fugacemente non dimenticherebbe mai la fondamentale caratterizzazione “tendenziale” (della caduta) e non penserebbe mai che lalegge della caduta tendenziale del saggio di profitto possa legittimare l'idea di un qualsivoglia inevitabile “crollo”, come Formenti lascia intendere). Verrebbe da dire: quando Formenti parla di Berardi Bifo o di Graeber o di Negri si sente che sa di cosa sta parlando, ciò che sembra molto meno quando parla di Marx e dei suoi eredi. E se queste sono le basi su cui Formenti si appoggia per dare patenti di “marxismo” agli ACeS stiamo freschi…

“D’altro canto, la «immaginarizzazione» (o se si preferisce la «culturalizzazione») dello scontro finale è l’inevitabile pendant della rimozione del problema della transizione, comune a tutte le correnti rivoluzionarie di cui ci stiamo qui occupando”.

Sia chiaro: il “Problema della transizione” è comune a tutte le correnti rivoluzionarie (A-ACeS) nel senso che tutte queste correnti se ne sono occupate in modo sbagliato.

“In altri interventi ho sottolineato l’interesse relativo che Negri e altri teorici postoperaisti manifestano per il tema della transizione, in quanto convinti che, nell’era del capitalismo postfordista e digitale, la socializzazione dal basso, sostanzialmente spontanea e autonoma, delle forze produttive sia arrivata a un punto tale da ridurre il problema a una sorta di gestione imprenditoriale alternativa della ricchezza da parte delle moltitudini. Analogamente, Graeber rifiuta l’idea di un «cataclisma rivoluzionario» che abbia come obiettivo immediato il rovesciamento dei governi. L’azione rivoluzionaria viene piuttosto descritta come un processo graduale di creazione dal basso di forme alternative di organizzazione sociale, un insieme di pratiche ed esperienze che consentirebbero al nuovo di crescere negli interstizi del vecchio (esperienze come quelle della crisi argentina e del movimento zapatista vengono citate a esempio di tale processo, e descritte come «tessere» di un mosaico globale in via di composizione). Insomma, la rivoluzione come proliferazione delle comuni e delle loro interconnessioni reciproche. Un modello che consente oltretutto di bypassare la spinosa questione dell’uso (o del rifiuto) della violenza come strumento rivoluzionario. Pur avendo posizioni assai articolate (dal pacifismo radicale, di principio, alla giustificazione dello scontro militare sotto certe condizioni) tutte le componenti di cui ci stiamo qui occupando condividono infatti il presupposto (del resto incontestabile) secondo cui, oggi, qualsiasi scontro frontale contro le forze professionali della repressione sarebbe destinato alla sconfitta. Dunque le tesi di Graeber in merito sia alla convergenza, sia alla complementarietà fra discorsi anarchici e autonomi sembrano trovare sostanziale conferma. Resta però da sciogliere un nodo decisivo, messo in luce dallo stesso Graeber: la vera, irriducibile differenza fra discorso anarchico e discorso neomarxista, consiste nel fatto che il primo è soprattutto un discorso etico sulla pratica, mentre il secondo è un discorso teorico sulla strategia. Condivido pienamente e credo sia questo il motivo per cui oggi i postoperaisti sembrano in qualche modo muoversi «a rimorchio» delle pratiche di movimento anarchiche, nella misura in cui il loro discorso teorico, come cercherò di dimostrare nell’ultima parte di questo intervento, contiene alcune aporie di fondo che impediscono di formulare un progetto politico coerente”18.

Quello che Formenti dice di Graeber (e non a caso anche di Negri) evidenzia una la tematica tutt'altro che nuova del “nuovo” che cresce tra le maglie del “vecchio”. Si tratta dello scimmiottamento di una tematica effettivamente “marxiana” perché anche Marx, parlando della transizione da un modo di produzione ad un altro, si riferisce a questo passaggio come ad una sorta di “parto” della società nuova la cui gestazione è già iniziata in quella vecchia. Da questo punto di vista è corretto pensare che, in certa misura, il modo di produzione socialista debba cominciare a nascere già dentro il modo di produzione capitalista così come questo, a suo tempo, cominciò a svilupparsi dentro quello feudale, fin dall'epoca delle città-stato europee (le Repubbliche Marinare, la Lega Anseatica, Firenze, ecc).

Di conseguenza, tematiche come quella della progressiva socializzazione delle forze produttive o quella del “general intellect”, tanto smisuratamente care a quello che Formenti chiama post-operaismo, sono certamente importanti.

Il fatto è che Marx non pensa affatto che la semplice socializzazione progressiva delle forze produttive permetta la transizione e questo per due ragioni: la prima è che le forze produttive e la loro socializzazione non sono neutre19 e quindi possono essere usate solo in parte – e spesso in modo ben diverso -dentro un modo di produzione socialista; secondo, perché di fronte a quella socializzazione si erge la natura privata dell'accumulazione capitalistica, natura che i capitalisti difendono e sono intenzionati a difendere con tutte le armi a loro disposizione. Quindi, la “gestione imprenditoriale alternativa della ricchezza da parte delle moltitudini” non costituisce affatto una transizione dal capitalismo, ma semplicemente una diversa gestione del capitalismo. Diciamo, un capitalismo dal volto più umano

In Negri o Graeber non c'è una vera riflessione sulla transizione perché in realtà non c'è nessuna vera transizione.

La famosa contraddizione tra sviluppo delle forze produttive rapporti sociali (capitalistici) di produzione di cui parla Marx20 tanto poco può essere risolta spontaneamente – come pensano Negri e Graeber secondo Formenti – che Marx dichiara con una certa qual chiarezza la necessità di una rivoluzione comunista violenta (“Le classi dominanti tremino al pensiero…”, “i loro fini possono essere raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l'ordinamento sociale finora esistente…”21,
“La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova”22). Altro che passaggio graduale e indolore, comunità via Internet, comuni interconnesse… E senza contare che lo stesso Graeber denuncia come OWS si trovi di fronte ad una “forte” repressione poliziesca a fronte di un atteggiamento del movimento tutt'altro che aggressivo23. E allora la domanda sorge spontanea: se la polizia manganella e arresta per due sit-in pacifici, cosa farà il giorno che venisse davvero messo in discussione il potere capitalistico, sia pure attraverso le pacifiche “comuni” e loro “interconnessioni”?

“Gli anarchici danno scarso o nessun peso all’analisi della composizione di classe: per loro il soggetto rivoluzionario coincide, in ultima istanza, con le persone, i singoli individui che si associano liberamente in comunità fondate su legami di affinità. L’intero impianto del discorso operaista e postoperaista, viceversa, si fonda proprio sull’analisi della composizione di classe, la cui finalità consiste nell’identificare, in ogni situazione storica determinata, le modalità con cui la composizione tecnica (operaio professionale, operaio massa, tecnici, lavoratori della conoscenza, ecc.) si converte in composizione politica (quali strati di classe incarnano il punto più alto della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione e quali altri – non sempre sono gli stessi! – mettono in atto le forme di lotta più avanzate). Questa tradizione, inaugurata negli anni Sessanta con l’identificazione dell’operaio massa quale nuovo soggetto antagonista in alternativa all’operaio professionale, e proseguita con lo slittamento dell’attenzione sull’operaio sociale, dopo che la ristrutturazione capitalistica aveva neutralizzato la grande fabbrica fordista come luogo dell’antagonismo, sembrava essersi definitivamente incagliata con la ipostatizzazione metafisica della «moltitudine». La lettura «biopolitica» della relazione antagonistica fra capitalismo immateriale e pura vita, messa al centro del processo di creazione di valore, al di fuori di ogni relazione «fabbrichista» fra capitale e lavoro, ha segnato probabilmente il punto di massima convergenza fra discorso postoperaista e discorso anarchico (spontaneista, individualista e populista). Da qualche tempo, tuttavia, messa fra parentesi – pur senza riflessioni autocritiche – la categoria di moltitudine, l’analisi sembra avere rimesso al centro dell’attenzione la classe, come certificato da un articolo apparso sul numero di maggio di «alfabeta2» (n. 19, Per una politica della composizione) a firma collettiva Uninomade”24.

Nel passo precedente Formenti caratterizza in modo condivisibile il discorso operaista sul terreno della composizione di classe che rappresenta uno degli abbagli più straordinari di quel “discorso” in cui si assume la corrispondenza meccanica tra composizione “tecnica” e composizione “politica”; un ennesimo scimmiottamento di Marx ed in particolare della riflessione sul rapporto tra essere sociale coscienza politica, da cui discende la sottovalutazione dell'organizzazione politica rivoluzionaria e della sua funzione di “intellettuale collettivo”. Si tratta, infine, del fondamento teorico dell'iper-soggettivismo operaista che, come ricorda Formenti, è passato allegramente dall'operaio massa, all'operaio sociale, alle moltitudini, ai lavoratori cognitivi e così via soggettivistizzando…  

“In questo testo alcune interessanti novità convivono con la «vulgata» delle precedenti elaborazioni. Partiamo dalle prime. In primo luogo si afferma che il nodo politico fondamentale consiste oggi nel mancato incontro fra working poors, ciò che resta della classe operaia tradizionale, lavoratori della conoscenza e classi medie declassate. Dopodiché si aggiunge che tale nodo non può essere affrontato attraverso una «politica delle alleanze», ma solo attraverso una «politica della composizione». Infine, e questa mi pare la novità più significativa, si riconosce che tale composizione non si dà naturalmente, nemmeno quando esistano interessi comuni, ma che la si può realizzare solo attraverso un «lavoro militante». Qui ci sarebbero tutti gli elementi per una svolta strategica; sennonché queste aperture appaiono neutralizzate dalla volontà di difendere a tutti i costi il «paradigma» consolidato nei precedenti vent’anni. Il cui punto più debole, a parere di chi scrive, coincide con l’ostinata identificazione (clamoroso esempio di confusione fra composizione tecnica e composizione politica!) del soggetto antagonista con il lavoro cognitivo.

Negli anni Novanta, fino alla crisi del 2001, abbiamo condiviso tutti (compreso chi scrive) questa convinzione. Insistervi oggi, dopo dieci anni di ristrutturazione in salsa 2.0, significa tuttavia commettere un errore analogo a quello di chi, dopo la crisi degli anni Settanta, continuava a scommettere sul ruolo strategico dell’operaio massa. È un errore condito da una serie di quelli che suonano ormai come luoghi comuni. Per esempio, l’idea che l’evoluzione tecnologica abbia creato le condizioni per «il divenire autonomo di cooperazione sociale, conoscenza e linguaggio come mezzi di produzione incorporati nel lavoro vivo»; laddove basta leggere il bell’articolo di Franco Piperno sul numero di giugno di «Alfabeta2» (Dall’ora locale all’ora globale) per capire che quelle tecnologie incorporano anche e soprattutto formidabili modelli di disciplinamento e dominio del lavoro morto sul lavoro vivo (taylorismo digitale), in modo non molto diverso da quanto faceva il «vecchio» capitale fisso. E ancora: da un lato si riconosce cheil lavoratore cognitivo in rete è isolato e incapace di solidarietà (Bifo), che ha creduto di poter soddisfare tramite il lavoro bisogni di gratificazione personale, di sentirsi utile e creativo, al punto da configurare «un patto implicito fra nuova composizione del lavoro e capitale» (Uninomade, Per una politica della composizione, cit.), che ci siamo assuefatti a farci pagare non per quanto facciamo ma per quello che siamo (per la nostra padronanza dei codici sociali, talento relazionale, aspetto esteriore, ecc.) in un’orgia di identificazione totale con la mission e la vision aziendali; dall’altro lato non se ne traggono le conseguenze. Si ammette, per esempio, che la Apple non può fare a meno di Foxconn, per precisare subito dopo che questo «non mette in discussione il nuovo paradigma» (ma per quale oscura ragione, se non per miopia eurocentrica, qualche decina di migliaia di nerd angloamericani dovrebbero incarnare il punto più alto della composizione di classe rispetto a due miliardi di operai cinesi, indiani e latinoamericani?!). Discorsi che appaiono paradossalmente egemonizzati dall’ideologia dei guru della New Economy, con i loro vaneggiamenti sulla smaterializzazione/virtualizzazione del mondo, quasi a voler dare credito all’esistenza di quel soggetto impersonale che i media borghesi chiamano «i mercati». Non a caso, Bifo scrive che la classe finanziaria non ha un volto riconoscibile ma agisce come uno sciame, un pulviscolo impersonale guidato da una volontà inconsapevole. Ma è davvero così? Che il mercato funzioni in modo «anarchico» ce lo aveva già spiegato Marx, il quale ci aveva però anche spiegato che la classe capitalistica non è una semplice astrazione matematica, un algoritmo. La borghesia non è morta, come spesso si dice, se mai ha cambiato pelle, come fa di secolo in secolo, secondo la lezione degli storici dei lunghi cicli (da Braudel a Wallerstein e Arrighi). Dietro ai mercati ci sono sempre state e sempre ci saranno persone in carne ed ossa, dai vecchi padroni delle ferriere, ai manager stile Marchionne, a mostri come quello descritto nell’ultimo film di Cronenberg, Cosmopolis. Mostri che non «crollano» da soli, per quanto catastrofiche possano essere le crisi innescate dalla loro follia, ma possono essere esorcizzati solo da un progetto politico organizzato”25.

Anche questa parte del testo di Carlo Formenti è interessante. E la critica all'assunzione del lavoro cognitivo come “punto più alto della composizione” sarebbe ancor più interessante se non si fermasse a metà del guado. O, per meglio dire, se non facesse addirittura un passo indietro. Qui, infatti, la questione non è se il “Soggetto” siano i pochi“nerd” anglosassoni o i tanti “operai” cindiani. Posta in questi termini la questione assomiglia (attenzione, assomiglia) ad una sorta di riedizione del confronto tra marxisti e populisti in Russia alla fine dell'800 che possiamo così semplificare: sono i tantissimi contadini o i pochissimi operai il “Soggetto” della rivoluzione?

Lenin risolse il problema in due passaggi decisivi. Il primo passaggio fu quello di combattere e sconfiggere le posizioni populiste mostrando che lo sviluppo capitalistico era un fatto sul quale le opinioni avevano scarsa influenza e che si dispiegava rapidamente anche nelle campagne, distruggendo la vecchia comunità rurale tanto cara al populismo e polarizzando i contadini in “borghesi” e “proletari”, per usare la terminologia del Manifesto del partito comunista.

Il secondo passaggio è venuto precisandosi nell'alleanza degli operai con i contadini ed in particolare con i contadini poveri e i contadini medi. Per trasposizione, potremmo dire, sarebbe oggi l'alleanza tra “nerd anglosassoni” proletarizzati e “operai cindiani” proletari. Ecco come forse Lenin -escluso da Graeber e Formenti dal novero dei marxisti, tra i quali siedono invece, non si sa bene a quale titolo, gli ACeS -riuscirebbe a risolvere ciò che, né i post-operaisti, né Formenti, né gli ACeS riuscirebbero mai a risolvere (avendo scelto di abbandonare il terreno delle alleanze, ovvero della costruzione del blocco sociale anti-capitalista per limitarsi al terreno della composizione entro cui andare a caccia di Soggetti Rivoluzionari).

Un secondo punto interessante è quello che riguarda la critica della presunta naturaimpersonale della riproduzione capitalistica la quale trova appoggio nelle considerazioni di alcuni autori anche piuttosto diversi, come Gunther Anders o Louis Althusser26. In realtà, qui ha ragione Formenti, i “soggetti in carne ed ossa” ci sono eccome e la “natura anarchica” della produzione capitalistica è, in ultima istanza, la causa delle crisi chepossono essere contenute, ma non possono essere evitate.  

Il che ci riporta al tema del confronto fra anarchici e postoperaisti, e alla necessità di dare corpo al termine «politica della composizione», evitando che resti l’ennesima categoria astratta.

Ironizzando sulla «tristezza del postoperaismo» (è il titolo di un capitolo del suo libro La rivoluzione che viene), Graeber prende in giro le arzigogolate astrazioni (con particolare riferimento alla «biopolitica») di questa scuola teorica. Sotto certi aspetti si tratta di giudizi ingenerosi, visto che altrove lo stesso Graeber ammette di avervi attinto molte idee (a partire dal tema del rifiuto del lavoro) ma, occorre ammettere, non del tutto infondati. In particolare, trovano giustificazione nel «moto pendolare» che le aporie messe in luce poco sopra sembrano imprimere al discorso postoperaista: da un lato, l’idea secondo cui oggi esisterebbe una «intellettualità di massa» che svuota di senso ogni pretesa di leadership da parte di avanguardie intellettuali e politiche «esterne» al movimento, sembrerebbe neutralizzare qualsiasi differenza con il discorso anarchico, configurando una sostanziale convergenza di obiettivi, forme di lotta e modelli organizzativi; dall’altro lato, dietro certe «sofisticazioni» teoriche, si intravedono riflessioni che vanno in tutt’altra direzione, giustificando la diffidenza anarchica nei confronti di una irriducibile anima «leninista» aleggiante nel discorso postoperaista. Personalmente, ritengo che esistano fondate ragioni per esplicitare e chiarire i temi che citavo prima in riferimento al documento di Uninomade: se è vero, e io sono convinto sia vero, che una politica della composizione non emerge naturalmente e spontaneamente dai movimenti, ma può essere solo il frutto di un lavoro militante, è arrivato il momento di smetterla di civettare con lo spontaneismo di maniera e l’illusione di rovesciare il capitalismo federando piccoli gruppi di affinità che praticano una orizzontalità politically correct. La discussione su organizzazione politica, strategie di lotta e scenari della transizione è ri-aperta”27.

Formenti è chiaramente in difficoltà. Mette in luce le aporie del postoperaismo, richiama giustamente a “smettere di civettare” con lo spontaneismo di maniera (perché solo con quello “di maniera”?), ma non va oltre.

La discussione sarà anche “ri-aperta” tra ACeS e anarchici però il punto sta da tutt'altra parte. Non bisogna avere problemi con la spontaneità che, nella misura in cui c'è, c'è e semmai va capita e non enfatizzata o liquidata superficialmente. Bisogna invece avere molti problemi con lo spontaneismo ovvero con la costruzione teorica secondo cui la spontaneità conduce alla rivoluzione, al comunismo, all'anarchia e chissà dove altro… Purtroppo le cose non stanno così. Senza teoria rivoluzionaria non c'è movimento rivoluzionario la teoria rivoluzionaria non è un portato spontaneo delle lotte e, tanto meno, della semplice condizione sociale. Questo è il fondamento della divergenza irrisolvibile tra marxisti e leninisti da un lato e A ACeS (anarchici più ACeS) dall'altro.

L'attuale egemonia culturale dell'anarchismo nella sua variante ultra-individualista e post-moderna, come la definirebbe Preve28, è in larga misura il riflesso dell'egemonia culturale della piccola borghesia nel cosiddetto “movimento”. L'afflusso di settori piccolo borghesi al radicalismo che “indignados” e OWS interpretano così bene è un portato dellosgretolamento del blocco sociale dominante picconato dalla crisi che spinge con forza i processi di polarizzazione sociale, di travaso di ricchezza dal lavoro al capitale e di proletarizzazione delle cosiddette “classi medie” (medie soprattutto dal punto di vista culturale29) spinte all'abbraccio con movimenti “radical”. 
A Toni Negri che si domanda come mai in Italia non si sia avuta OWS30 si potrebbe rispondere che lo sgretolamento del blocco sociale che ha dominato gli ultimi decenni viene in larga misura intercettato da Grillo e dal Movimento 5 stelle (e infatti lo stesso Graeber, sia pur timidamente e con critiche neppure tanto velate, valorizza M5S per il suo sperimentare nuove forme di “democrazia diretta”31).

Che alla borghesia piaccia che si diffondano il più possibile forme di organizzazione “liquida” non stupisce. Fintanto che i movimenti restano allo stadio spontaneistico, assemblearistico, movimentistico… non solo non sono un problema, ma anzi operano come sabbie mobili che impantanano molti giovani attratti da chiacchiere ribellistiche che cercano disperatamente di legittimarsi legittimando processi che meriterebbero approcci molto meno superficiali32.

Il tema proposto da Formenti non è interessante per quanto riguarda il discorso dell'eredità del marxismo di cui gli ACeS non sono gli interpreti più genuini o gli eredi. Anzi, gli ACeS subiscono l'egemonia culturale dell'anarchismo post-moderno e questo del dilagante individualismo. E' l'individualismo e non una forma estrema di comunitarismo che spinge alla cosiddetta tecnica del “consenso” la quale, tra parentesi, può funzionare in modo del tutto ipotetico in un movimento culturale che ha già in partenza parametri culturali di riferimento comuni (ed infatti funziona soprattutto nei piccoli “gruppi di affinità”)ma che è impossibile far funzionare in un mondo reale nel quale le diversità non sono solo di opinione, come forse pensano ad Occupy Wall Street, ma di classe: come spieghiamo a Bill Gates che i suoi soldi sono requisiti dai lavoratori? Come spieghiamo al Governo israeliano che i suoi missili sono riconvertiti in ferro per l'industria? Aspettiamo che, grazie al “metodo del consenso”, acconsentano sventolando le mani?

Piuttosto, il tema proposto da Formenti è interessante perché consente una riflessione sugli elementi teorici fondamentali che caratterizzano le proposte culturali egemoni negli odierni movimenti di opinione internazionali. E le varie forme di anarchismo postmoderno (a cui gli ACeS si sono gradualmente avvicinate) hanno una forte presa perché sono coreografiche, estetiche; come ci insegnano proprio i situazionisti, siamo nella “società dello spettacolo” e dunque bisogna produrre eventi ad alto tasso simbolico “in grado di accelerare i processi di 'contaminazione'”. Ed allora, la conclusione è semplice: queste forme funzionano non in quanto mettono in discussione l'esistente ma, al contrario, proprio in quando vi aderiscono culturalmente, riproducendolo

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 Note

1 Carlo Formenti, Tra post-operaismo e neo-anarchia, 2012 

2 Karl Marx, Friedrich Engels, Critica dell'anarchismo, Pagine XXXIX-530, Einaudi, 1972

 3 Karl Marx -Fredrich Engels, Da: L’Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista e l’Associazione Internazionale degli Operai, V, L’Alleanza in Italia: “In Italia l’Alleanza era sorta prima dell’Internazionale. Papa Michele vi aveva soggiornato e aveva stabilito nume rosi contatti con i giovani elementi radicali della borghesia. La prima sezione dell’Internazionale italiana, quella di Napoli, si trovava sin dalla fondazione sotto la direzione di questi elementi borghesi e alleanzisti” […] “Al Congresso di Basilea. Bakunin rappresentò, a fianco del suo fedele Caporusso, gli aderenti napoletani all’Internazionale, mentre l’Antonelli dell’Alleanza, Fanelli, delegato di alcune associazioni operaie che stanno al di fuori dell’Internazionale, fu trattenuto per via di un’indisposizione [Fanelli siede già da tempo al parlamento italiano. Interpellato in proposito, Gambuzzi dichiarò che è molto bello essere deputato: l’immunità nei confronti della polizia e la possibilità di viaggiare gratuitamente su tutte la ferrovie italiane. L’Alleanza vieta agli operai ogni attività politica, poiché esigere dallo Stato l’istituzione di una giornata lavorativa normale per le donne e i bambini, vuol dire riconoscere lo Stato e capitolare di fronte al cattivo principio, ma i capi borghesi dell’Alleanza hanno una dispensa papale che permette loro di sedere al parlamento e di godere dei privilegi offerti dallo Stato borghese. L’attività ateistica e anarchica di Fanelli al parlamento italiano si è limitata finora ad un ampolloso elogio dell’autoritario Mazzini, l’uomo del «Dio e popolo».]” 

4 Non intesa come semplice successione di eventi ma come complesso di tutte le attività umane, pratiche ed intellettuali.

 5 Cfr. Theodore J. Kaczynski, La società industriale e il suo futuro. Il manifesto di Unabomber, Ed. Stampa alternativa. 

6 Così come non contempla l’inneggiare al neo-primitivismo e poi girare il mondo a far conferenze spostandosi con gli aerei e presentando libri stampati con macchinari ultrasofisticati, magari promuovendoli via Internet o trasportandoli attraverso mezzi che usano carburanti distribuiti dalle multinazionali del petrolio.

 7 Cfr. D.H.Thoreau, Walden.Vita nel bosco, Donzelli editore, 2005.
 8 Karl Marx – Fredrich Engels, Ideologia tedesca, “…e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della massa 'priva di proprietà' contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali.”. 

9 Carlo Formenti, Tra post-operaismo e neo-anarchia, 2012. 

10 Carlo Formenti, Tra post-operaismo e neo-anarchia, 2012. 

11 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), Nuova Italia, 1968, Volume primo, pag. 98, [21], Il denaro come rapporto sociale: «I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati. L’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo»

 12 Cfr http://www.youtube.com/watch?v=m6r26Gtfnwo. Il movimento è una grande rappresentazione simbolica in cui parole come “occupazione” o “rivoluzione” non hanno assolutamente il senso che siamo soliti dare loro. Di conseguenza, anche concetti come “consenso” perdono il significato che noi gli attribuiamo generalmente. Non si tratta di vere decisioni e infatti nessuno è vincolato ad alcunché. Non si tratta di una reale strategia di attacco al potere, ma piuttosto della rappresentazione puramente simbolica e virtuale di questo attacco. Il che delinea OWS o gli Indignados non come movimenti politici, ma come puri movimenti culturali entro cui l'eterogeneità non è un problema (così come nell'esistenzialismo possiamo trovare il Martin Heidegger iscritto al partito nazista e il Jean-Paul Sartre influenzato dal maoismo). Sull'interpretazione del concetto di “consenso” cfr. David Graeber, This Changes Everything. Occupy Wall Street and the 99% Movement, Capitolo 2, Enacting the impossible: making decisions by consensus. Quando scoppierà la rivoluzione vera e si tratterà di decidere quale edificio vero occupare con le armivere allora forse verrà ripristinato il voto e lo sventolio delle mani verrà ri-sostituito l'applauso, il fischio e magari anche qualche bella pernacchia.

13 Benedetto Vecchi, Un indispensabile blocco nero nelle metropoli affluenti. L'attitudine anarchica del XXI secolo. Da Seattle a Occupy Wall Street, Il Manifesto, 29 maggio 2012: “Per l'antropologo statunitense, i movimenti sociali sono sia forme specifiche di azione politica, ma anche sperimentazioni di come dovrebbe funzionare la società senza la presenza dello Stato. Posizione che lo porta ad affermazioni paradossali, come quella che i movimenti sociali, nel 2001, hanno vinto perché sono riusciti a mettere in crisi i piani del neoliberismo, delegittimando la triade sovranazionale -Wto, Fmi e Bamca Mondiale -che ha garantito l'ordine liberista”.

14 Carlo Formenti, Tra post-operaismo e neo-anarchia, 2012. 
15 Antiper, Partito e organizzazione, www.areaglobale.org: “Dietro questa vittoria, la grande lotta moltitudinaria”, Intervista al Prof. Toni Negri, 5 novembre 2008, GlobalProject.info. Ma vale la pena citare anche un brano di un'altra intervista: “Ma con Obama è anche il riformismo che vince? Direi che si tratta di un Riformismo profondamente diverso da quello che abbiamo conosciuto. Non è più un Riformismo keynesiano o post-newdealista… Questo è un Riformismo radicale, che modifica i rapporti di classe. Cioè un riformismo che toglie fortemente ai padroni per dare alla società”(cfr. scienzesociali.org). Mah, sarà il caso di chiedere cosa ne pensano in Honduras e in Afghanistan (e magari anche nei ghetti nordamericani) di questo “riformismo radicale che modifica i rapporti di classe”… Quanto al “togliere fortemente ai padroni per dare alla società” si può dire solo una cosa e cioè che l'età gioca brutti scherzi dal momento che il fenomeno che sta avvenendo negli USA è esattamente l'opposto ovvero l'accollamento allo Stato del debito dei privati (imprese e, soprattutto, banche).
16 Carlo Formenti, Tra post-operaismo e neo-anarchia, 2012. 

17 Carlo Formenti, Tra post-operaismo e neo-anarchia, 2012. 

18 Carlo Formenti, Tra post-operaismo e neo-anarchia, 2012.

19 Cfr ad esempio Guglielmo Carchedi, Dalla teoria di Marx l’analisi delle forze produttive e della transizione, 1. Importanza della natura di classe delle forze produttive per la transizione, Proteo, 2/2009: “Nella teoria di Marx le forze di produzione non sono per nulla neutre ma hanno un carattere di classe. Quindi la contraddizione di cui sopra non è tra forze di produzione neutre e relazioni di produzione capitalistiche ma tra forze e relazioni di produzione entrambe capitalistiche. È solo in questo senso che è possibile sostenere che la contraddizione che produce le condizioni oggettive per il superamento del capitalismo è interna, inerente al capitalismo stesso”.
20 Cfr. Karl Marx, Introduzione del '59 a Per la critica dell'economia politica.: “Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale”.
21 Karl Marx – Fredrich Engels, Il manifesto del partito comunista. “I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l'ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero d'una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi unitevi!”. 

22 Karl Marx, Il capitale, Libro I, Sezione VII, Il processo di accumulazione del capitale, Cap. 24, La cosiddetta accumulazione originaria: “I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno in successione cronologica, specialmente fra Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del secolo XVII quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come per esempio il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica”.

23 E quando aggiunge che la polizia la butta sullo scontro fisico perché non è in grado di rispondere alle argomentazioni del movimento, Graeber mostra di non aver ben chiaro né il ruolo della polizia e dello Stato – cosa peraltro un po' curiosa per un anarchico –, né del perché la polizia usi il manganello invece della persuasione. 

24 Carlo Formenti, Tra post-operaismo e neo-anarchia, 2012. 

25 Carlo Formenti, Tra post-operaismo e neo-anarchia, 2012. 

26 Cfr, Antiper, La tecnica del capitalewww.areaglobale.org

27 Carlo Formenti, Tra post-operaismo e neo-anarchia, 2012.

28 Costanzo Preve, Dalla Rivoluzione alla Disobbedienza. Note critiche sul nuovo anarchismo post-moderno della classe media globale: “Il nuovo anarchismo post-moderno della classe media globale, di cui Toni Negri è l'indiscusso Bakunin, non sa ovviamente neanche per scherzo che cos'è una formazione economico-sociale, con la conseguente necessità di costruire sul piano politico un'alleanza di classe, che non è mai “data” spontaneamente. Questo curioso “spontaneismo” riproduce infatti “spontaneamente” il processo capitalistico di addensamento sociologico di un “livello medio” dei redditi e dei consumi. La differenza fra il liberale normale e l'anarchico disobbediente è che il lib