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Non opponiamo il reddito al lavoro

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Non è vero che è impossibile perseguire la piena occupazione, come i teorici del «mainstream» neoliberista vorrebbero farci credere. E una sinistra moderna non può non essere fondata sul lavoro. Quello che è in discussione è il ruolo dello Stato: solo un suo intervento pubblico diretto nell'economia potrebbe portare a scelte produttive alternative a quelle monetariste.

Dobbiamo a William Baumol una famosa metafora economica, quella di Mozart e dell'orologiaio, sulla quale conviene tornare a riflettere di fronte alle sconsolanti cifre e prospettive che tutti i centri studi, senza eccezione, ci offrono in materia di incremento della disoccupazione. Gli organi della Ue prevedono una moderata ripresa nel 2014. Non è la prima volta che dispensano ottimismo ingiustificato, ma in ogni caso avvertono che tale possibile inversione di tendenza rispetto alla pesante recessione in atto non potrà avere effetti, se non in tempi molto successivi, sull'occupazione. In sostanza quella perduta in questa crisi non verrà mai più recuperata, almeno nello scenario europeo.

Anche a sinistra, purtroppo, molti pensano che la riduzione dell'occupazione sia l'inevitabile prodotto dello sviluppo delle tecnologie applicate alla produzione. Non potendo contrapporsi a queste ultime, a meno di non cadere in una sorta di riedizione del luddismo, bisognerebbe abituarsi a convivere con un'elevata e crescente disoccupazione o inoccupazione – mi riferisco in questo caso a quella giovanile – le cui esplosive conseguenze sociali andrebbero temperate e prevenute con forme di distribuzione della ricchezza prodotta, fino ad assumere anche la forma di un reddito di base del tutto separato dal lavoro. In fondo questo era il pensiero di Milton Friedman, il quale ben conosceva la potenzialità politica eversiva connessa alla ricerca della piena occupazione, avendogliela spiegata per tempo un economista marxista del calibro di Michal Kalecki.

Oppure vi è chi sostiene che in realtà nella società attuale dominata dal finanzcapitalismo vi è tanto lavoro che non è riconosciuto come tale e che pure entra direttamente nel ciclo di valorizzazione del capitale. Quindi il reddito garantito separato da ogni forma di lavoro ufficialmente riconosciuta sarebbe non soltanto un dovuto risarcimento, ma una sorta di distribuzione del dividendo sociale sulla ricchezza prodotta anche inconsciamente. Ci sono in tutto ciò elementi concreti di verità – ma anche generalizzazioni indebite – che però ci dovrebbero spingere a fare emergere e riconoscere come tali le forme di lavoro misconosciute dal sistema, chiedendone conseguentemente la congrua retribuzione.

Operazione tanto più necessaria e urgente, visto il dilagare spudorato dell'utilizzo esplicito del volontariato particolarmente nel campo dei servizi. È il caso evidente delle 18.500 unità di lavoro volontario del tutto gratuito previste dall'accordo sull'Expo milanese che si vorrebbe generalizzare al resto dell'Italia con l'entusiastica compiacenza delle organizzazioni sindacali, Cgil compresa. Oppure quello di alcune norme contenute nel “decreto del fare” di recente conversione, come l'utilizzo di neolaureati con media superiore al 27 per svolgere lavoro gratuito di supporto indispensabile al funzionamento dei tribunali nel congestionatissimo sistema della giustizia del nostro paese.

Ma torniamo a Baumol. Come si sa non siamo di fronte a un economista che parte dal punto di vista del lavoratore, ma del suo preciso antagonista, essendo l'economista americano, sulla scia di Schumpeter, un teorico riconosciuto della cosiddetta “economia dell'imprenditore”. Eppure la sua metafora può essere utilizzata per fini completamente diversi da quelli del suo ideatore.

Baumol diversi anni fa mise in relazione, per spiegare il perché del crescere del costo del welfare state e in particolare della sanità, il lavoro di un orologiaio con quello di un quartetto che esegue un brano di Mozart. A differenza del primo che vede progressivamente diminuire enormemente la quantità di tempo che gli serve per produrre il suo prodotto artigianale, grazie allo sviluppo tecnologico, per i secondi tutto rimane invariato. Ovviamente muta considerevolmente la rapidità dei loro spostamenti per raggiungere i luoghi dei concerti, ma quando imbracciano l'archetto, il tempo di esecuzione del brano musicale, tranne che pochi secondi in più o in meno derivanti dal caso o dallo stile interpretativo, è lo stesso di due secoli fa. Ovvero il tempo di lavoro e il numero delle persone impiegate per produrre il brano musicale sono incomprimibili. Non siamo di fronte a un atto di resistenza cosciente da parte dei lavoratori musicali, ma a una necessità di essenza della natura stessa del loro lavoro.

Passando dal campo artistico a quello sanitario, Baumol dimostrò che tempi e persone non potevano essere ridotti a meno di non cambiare totalmente la natura del prodotto, cioè diminuendo volutamente la copertura sanitaria di una società. In effetti è quanto sta avvenendo proprio in quelle società che con maggiore rapidità e brutalità hanno privatizzato i loro sistemi sociali, come nel caso della Russia, ove persino il tempo di vita atteso sta regredendo.

Tralascio qui il modo con cui Baumol dimostrava che i maggiori costi del lavoro – relativi! – nel campo sanitario potevano essere sopportati non con i tagli agli stipendi, ma grazie all'aumento della produttività generale dell'intero sistema produttivo e sociale. Ciò che importa qui cogliere dell'esempio fatto è la sostanziale menzogna che sta sotto tutte le teorie della inevitabilità della diminuzione dell'occupazione e dell'impossibilità della ricerca della piena occupazione. Rimaniamo pure nel campo della sanità, seppure intesa in senso lato. Il suo sviluppo in ambito pubblico può permettere non solo un indotto considerevole nei settori di produzione della strumentazione sanitaria, sia semplice che tecnologicamente raffinata, ma offre occasioni di occupazione tendenzialmente crescenti proprio grazie all'incremento delle speranze e della effettiva durata di vita delle persone, basti pensare al campo dell'assistenza strettamente intesa, classico esempio positivo di agire comunicativo relazionale da riconoscere e valorizzare. A meno non si voglia riseppellire tutto questo lavoro umano nell'ambito della famiglia. Se poi ci spostiamo dal campo della sanità al comparto cognitivo gli esempi sono forse ancora più facili.

Certamente la piena occupazione, come obiettivo tendenziale, comporta una ripresa della lotta per la riduzione dell'orario di lavoro, a partire in primo luogo dai settori manifatturieri, ovvero una redistribuzione del tempo potenzialmente liberato dal lavoro a causa delle innovazioni tecnologiche. Un'operazione esattamente opposta a quella in corso per la regia del capitale, ovvero l'assorbimento di tutto il tempo umano entro il processo di valorizzazione del capitale stesso.

Nello stesso tempo il reddito garantito non andrebbe contrapposto al lavoro, ma visto come mezzo possibile e necessario, nell'epoca del lavoro scarso e misconosciuto, per sottrarsi al ricatto della immediata sussistenza, quindi al sottolavoro, al lavoro nero e al precariato e cercarsi un decent work, come in fondo prevede una buona risoluzione del Parlamento europeo di tre anni fa, non a caso del tutto disattesa.

Ma il punto attorno al quale ruota la discussione, specialmente nella sinistra d'alternativa, è sul ruolo dello Stato, delle sue articolazioni funzionali e territoriali in tutto questo processo. Se ne comprende la ragione, visto la marcata tendenza alla sdemocratizzazione degli organi pubblici. Proprio questo processo, così funzionale al nuovo dominio del capitale nel XXI secolo, ci dovrebbe ricordare che lo Stato, attraverso la sua democratizzazione e la sua sburocratizzazione, quindi con l'aumento della partecipazione e la messa in atto di tutti gli strumenti di una vera democrazia deliberativa, non solo è lo strumento che può implementare i diritti e difendere i beni comuni dalla privatizzazione, anziché essere contrapposto a questi ultimi. Ma può diventare, grazie a un intervento pubblico diretto in campo economico secondo scelte produttive alternative a quelle oggi prevalenti, il luogo della produzione di valori d'uso, il cui ampliamento, rispetto a quelli di scambio, è decisivo per una contestazione radicale dell'economia monetaria di produzione – con conseguente perdita di importanza del denaro stesso – ovvero della essenza del capitalismo stesso. A meno che non vogliamo dargliela vinta per sempre.

Per tutte queste ragioni una sinistra moderna non può non essere fondata sul lavoro.

Alfonso Gianni