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Sono pronti. E noi?

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La manifestazione del 19 ottobre è andata molto bene sia per i numeri sia per la volontà che ha espresso, ma, soprattutto, è stata utile.

Intanto ha sancito l’impossibilità da parte del PD di strumentalizzare le lotte per fini propri, come era accaduto in occasione della manifestazione del 14 dicembre 2010, e poi ha ratificato quello che era emerso nella manifestazione del 15 ottobre 2011, vale a dire l’irreversibile rottura tra il movimento e i partitini della così detta sinistra radicale.

Questi ultimi, da anni, non hanno più la consistenza per indire manifestazioni e come paguri si attaccavano al movimento, usandone i numeri e la capacità di mobilitazione.

I loro leader si limitavano a presentarsi in piazza e a farsi fotografare, forti del fatto che i media avrebbero dato risalto alla loro fugace apparizione, salvo, poi, prendere le distanze nei confronti dei così detti “violenti” avallando ogni forma di repressione poliziesca, giudiziaria e mediatica.

Il PD, più raffinato, usava dei cavalli di troia, sigle di volta in volta coniate per nascondere il ruolo di burattinaio che tirava le fila dietro le quinte. L’ultima di queste operazioni è stata quella di “Se non ora quando”.

Il movimento, con la manifestazione del 19 ottobre, ha dato una prova di maturità affrancandosi da questi padrini/e interessati/e.

E’ stata, infatti, una mobilitazione indetta dal movimento sui temi propri del movimento e nessuno/a ha potuto strumentalmente metterci il cappello.

Poi, sono stati definitivamente smascherati i meccanismi di controllo mediatici che il sistema mette in atto con le stesse modalità da tanti anni a partire dal ’68 e che in questa occasione si sono mostrati nella loro forma più compiuta.

I media, nessuno escluso, hanno dimostrato che siamo in un regime dando una lettura assolutamente univoca della manifestazione sia nella presentazione che nel racconto. Le bugie, le manipolazioni sono state e sono così grossolane e così trasversali che non possono essere imputate a questo o a quel giornalista improvvido o superficiale e neanche a questa o a quella testata giornalistica e/o televisiva.

Ed è stata evidente la lontananza di chi ancora si attarda a presentare questa o quella testata come autorevole, obiettiva e, magari, di sinistra.

Giornali e testate televisive hanno coperto l’informazione utilizzando in maniera strumentale soprattutto corrispondenti giovani e possibilmente ragazze, i quali e le quali, non sprovveduti/e, perché sapevano bene la ragione per cui erano state scelti/e, si sono prestati/e con un entusiasmo gregario a raccontare e a diffondere le veline del regime.

Infine, la modalità con cui le così dette “forze dell’ordine” hanno gestito e affrontato la piazza è il frutto e la sintesi di anni di sperimentazioni.

I giorni precedenti sono stati caratterizzati da una atmosfera di propaganda terroristica che si è tradotta nella creazione di una vera e propria “zona rossa” intorno al percorso della manifestazione, zona in cui è stata vietata la sosta delle macchine con grande disagio per gli abitanti delle aree interessate, disagio che fa parte chiaramente della volontà di creare paura intorno all’evento. E’ il risultato di una strategia attuata già a Genova nel 2001.

I negozi erano quasi tutti chiusi sul percorso della manifestazione, frutto di una campagna di pressione che ci ricorda le intimidazioni attuate dalle “forze dell’ordine” nei riguardi dei negozianti per indurli a chiudere in occasione della commemorazione degli attentati dell’11 settembre alle Torri Gemelle.

Il controllo diffuso e generalizzato di tutte le forme di comunicazione internet e telefoniche che è arrivato fino alla ventilata minaccia di interrompere qualsiasi tipo di collegamento nelle aree interessate dalla manifestazione, viene direttamente dalla pretesa che è avvenuta nell’indifferenza dei più, richiesta a gran voce dalla sinistra socialdemocratica e riformista, di controllare comunicazione, conti correnti, transazioni economiche e finanziarie per “prevenire” il terrorismo e “combattere” l’evasione fiscale. Ora ci troviamo nella condizione che nulla di quello che diciamo, neppure nel chiuso della nostra casa, possiamo essere sicure/i che non sia ascoltato e trascritto.

I pullman dei/delle manifestanti che venivano da fuori Roma, dal sud come dal nord, sono stati bloccati e gli occupanti schedati e i mezzi e le persone perquisiti. Con un meccanismo usato e collaudato nei confronti dei tifosi in trasferta. Gli ultras hanno fatto da cavie, nell’indifferenza, anzi nel plauso generale.

Prendendo a pretesto situazioni presentate all’opinione pubblica, precedentemente condizionata e manipolata, come pericolose, il neoliberismo fa passare forme di controllo sociale forti e serrate. L’isolamento e il rastrellamento di interi quartieri, come è successo a Roma a San Basilio e al Pigneto, sono stati giustificati con la caccia agli spacciatori.

L’ultimo pretesto in ordine di tempo è la violenza perpetrata sulle donne, e la legge sul femminicidio non è altro che l’ultimo pacchetto sicurezza.

Sono stati fermati e accompagnati alla frontiera, il giorno prima, semplicemente con un provvedimento amministrativo, alcuni cittadini stranieri, senza nessun motivo, con lo stesso meccanismo con cui i migranti vengono rinchiusi nei Cie ed espulsi.

Sono state/i fermate/i compagni/e che venivano in macchina da fuori Roma, è stato loro comminato con un provvedimento amministrativo il foglio di via, con il divieto di entrare a Roma per tre anni. Questa pratica è sistematicamente usata nei confronti di chi va a lottare in Val di Susa, in aperta violazione dell’art.16 della Costituzione.

Ma è successo qualcosa di più.

Tante e tante persone sono state bloccate preventivamente, molto prima della manifestazione, la sera prima, la mattina prima, mentre camminavano normalmente per le strade di Roma per i fatti loro, messe con la faccia al muro, perquisite e schedate, portate perfino in commissariato.

Le istituzioni in divisa hanno mandato un messaggio forte, hanno dimostrato che sono pronte.

Si da per scontato che la platea dei poveri, dei disperati, delle famiglie che non mangiano, che vivono per strada aumenterà a dismisura, coinvolgendo strati sempre più larghi della popolazione e per tenerli a bada non servirà l’esercito perché le così dette forze dell’ordine in tutte le loro articolazioni si sono preparate e sono in grado di gestire malcontento, proteste e ribellione.

Il messaggio è chiaro: potete solo suicidarvi. Dietro questa imponente organizzazione repressiva c’è questa cinica soluzione, l’unica che, secondo loro, gli oppressi/e possono percorrere.

E le strutture repressive, come premio, ricevono benefit di ogni natura: salvaguardia ed aumento dei loro stipendi, nuove assunzioni, brillanti carriere, immunità e impunità e, per i vertici, l’entrata dalla porta principale e il sedersi nel salotto buono della borghesia, il tutto corredato da incarichi di prestigio e accompagnato dall’introduzione della pena di morte extra-legem per i cittadini/e.

La Greciace lo ha insegnato, il sistema non vuole una soluzione fascista tradizionale, ma una soluzione autoritaria, nascosta dietro parole tanto nobili quanto inconsistenti, e non ha bisogno di ricorrere all’esercito, gli bastano le forze dell’ordine.

Ai fascisti nostalgici il ruolo di manovalanza.

Se siamo arrivati a questa situazione le responsabilità maggiori sono della socialdemocrazia che, fattasi destra moderna, sponsorizzata e sostenuta dalle multinazionali anglo-americane, ha criminalizzato ogni forma di opposizione, ha giustificato la distruzione dello Stato sociale, l’annullamento di tutte le conquiste di tanti anni di lotte e l’imbarbarimento della società, distruggendo tutte le forme di resistenza al neoliberismo. Da qui l’uso strumentale, fuorviante e disonesto dei richiami alla legalità, alla supremazia della legge, alla meritocrazia, all’efficienza del privato, allo spreco nel pubblico. Ed ancora i feticci del mercato, dello spread, del debito.

L’iper-borghesia o borghesia imperialista, nel suo processo di auto-valorizzazione, ha attaccato a fondo le condizioni di vita di una platea sempre più larga che non abbraccia soltanto le figure tradizionali degli oppressi, ma anche la piccola e media borghesia, i lavoratori cognitivi, i dipendenti pubblici e parastatali, i lavoratori autonomi, i liberi professionisti, i commercianti al dettaglio… Questa è una svolta epocale che ha fatto sì che la nostra società sia contemporaneamente ottocentesca per le condizioni di vita e per il ritorno alle guerre coloniali, nazista per l’impostazione di uno Stato etico e per la tendenza al governo diretto degli organismi sovranazionali non espressione del voto ma solo dei potentati economico-finanziari, medioevale per la delega alle corporazioni della tutela delle frazioni della società per non dire della difficoltà e quasi impossibilità di mobilità sociale.

Da dove cominciare? Dal leggere la società, i ruoli e i protagonisti per quello che sono, compito facile sulla carta, ma difficile se non siamo in grado di raccontare la natura della manifestazione del 19 ottobre, della lotta dei valsusini….. dell’aggressione alla Jugoslavia, alla Libia, alla Siria…e ci facciamo irretire da letture tanto colte quanto fuorvianti…”sono tutti imperialismi…”…”a noi interessa solo la classe operaia”… tutti germi di corruzione del discorso di classe che aiutano, in definitiva, la perpetuazione dello stato di cose presenti. Si accettano le truppe di occupazione nel terzo mondo e ne scaturisce l’assuefazione ai militari in Val di Susa, si toglie ogni valenza politica alla resistenza dei popoli aggrediti e per trascinamento si fa la stessa operazione a casa nostra.

Non si tratta di alzare il livello dello scontro, non è sufficiente collegare le lotte, ma portarle a sintesi. E’ necessaria una ricomposizione di classe che unisca tutti i segmenti della società e le realtà che sono uscite con le ossa rotte dalla realizzazione del progetto neoliberista. Nessuna classe o frazione di classe può avere in partenza la pretesa di essere egemonica in questo processo. A determinarlo sarà dialetticamente chi sarà capace di interpretare le esigenze e le aspettative comuni.

di Elisabetta Teghil