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Vent’anni di Silvio Berlusconi

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Ma tu chi sei?. Sono il tuo incubo peggiore!. (Sylvester Stallone in Rambo 3)

Vent’anni or sono, il 26 gennaio del 1994, Silvio Berlusconi annunciò la sua discesa nell’arena politica con Forza Italia, partito costruito repentinamente davanti a un notaio a Milano il 29 giugno 1993. L’uomo che stava per scendere nella politica era presidente della Fininvest un grosso gruppo imprenditoriale, composto da circa 300 aziende organizzate in sette comparti, poteva contare su 40 mila collaboratori sparsi su tutto il territorio nazionale nelle sedi regionali di Pubblitalia, disponeva di 530 punti vendita Standa, di 300 aziende di Programma Italia, più gli uffici di Mediolanum assicurazioni e di Edilnord. Le risorse finanziarie, umane, organizzative, tutte necessarie alla costruzione del movimento politico, vennero dalle aziende Fininvest, ad iniziare dalla gruppo dirigente, quello aziendale, che si trasferì in politica.

Un partito costruito dall’alto quindi, governato e organizzato dallo staff aziendale con a capo il suo presidente in una fusione diretta tra rappresentanza politica e rappresentanza di interessi economici che non aveva precedenti nella storia italiana e che poteva trovare un suo spazio e una sua collocazione approfittando di due coincidenze: il disorientamento in cui versava un’Italia conservatrice, numerosa ma disomogenea, accomunata da una forte avversione per la sinistra; la riforma elettorale (il Mattarellum) che nel 1993 aveva abolito il sistema proporzionale, in vigore dal 1946, introducendo il maggioritario-bipolare.

Forza Italia si presentava come una “filiale” nuova e aggiunta dell’azienda che interveniva in un nuovo mercato, quello elettorale. Era una frazione della borghesia che decideva di costituire un proprio partito. A differenza di altre frazioni della borghesia italiana che avevano sempre affidato “marxianamente” ad un “comitato d’affari”, fatto di uomini politici, il governo delle leve dello Stato, Forza Italia promosse direttamente la costituzione di un proprio ceto politico predisposto al governo del paese. Fu un colpo di scena che inserendosi nella crisi dei partiti governativi tradizionali raccolse una massa di consensi elettorali e di adesione popolare e sconvolse anche il normale modo di rapportarsi delle frazioni dei ceti dominanti all’interno della borghesia e di questa classe col ceto politico.

Un nuovo modo di far politica

Il lancio del prodotto Forza Italia avvenne secondo gli schemi classici in uso per il lancio di prodotti sul mercato a partire dalla domanda Si scoprì ad esempio che la domanda era caratterizzata da una forte critica alla politica dei partiti, pertanto Forza Italia e Silvio Berlusconi sposarono subito l’antipolitica quale elemento costitutivo del movimento: disprezzo verso chi viveva di politica, polemica contro le “lobby” politiche e culturali, particolarmente quelle di sinistra. Valorizzazione massima della persona, dell’individuo, della sua volontà, l’idea che le sorti dell’Italia e i programmi del governo dipendessero soprattutto dall’atteggiamento e dallo stile personale.

Il partito approntato era un’organizzazione patrimoniale, di proprietà del suo fondatore. Aveva una gestione basata sul modello aziendale: forte centralizzazione e dirigenti scelti per cooptazione. Operava per impulso di una direzione centrale, che aveva ampia libertà di manovra, sottoposta a sua volta al carisma di un leader forte che dirigeva e decideva. La personalizzazione del ruolo dirigente era destinata a segnare la storia della politica italiana da allora in poi, trascinando con sé anche i leader dell’opposizione. La scelta dei candidati da inserire nelle liste di Forza Italia per le elezioni politiche del 1994 fu fatta privilegiando le “facce nuove” della società civile. I candidati una volta individuati centralmente furono sottoposti a una serie di selezioni atte a garantirne l’idoneità con particolare attenzione all’aspetto: stile, abbigliamento, volto sbarbato e ben curato, capelli corti e ben tagliati, tipo dirigenti aziendali di successo. Furono sottoposti a prove televisive e opportunamente addestrati alle tecniche di comunicazione al fine di proiettare un’immagine positiva e rassicurante. Il rinnovamento riuscì. Dopo le lezioni del 1994, il nuovo parlamento risultò composto da un’elevata percentuale di nuove facce, il contributo maggiore al rinnovamento dei parlamentari della Lega Nord e di Forza Italia, in quest’ultimo schieramento il 90% degli eletti risultò alla prima esperienza parlamentare.

L’essenza del progetto consistette nella composizione di una nuova proposta politica di centro destra che recuperasse il voto conservatore e i principi della tradizione liberale e liberista. Berlusconi mise poi al centro della campagna elettorale se stesso, spostò la politica sulla persona, sulle qualità e le doti del leader, costringendo i suoi avversari a confrontarsi su questo terreno, al punto che a cominciare da quella lontana campagna elettorale, temi e programmi degli schieramenti politici opposti divennero secondari rispetto alle virtù o ai difetti del candidato Berlusconi.

La sorpresa…

La sua discesa in campo apparve agli oppositori improvvisata e raffazzonata. Molti sorrisero bonariamente e “cazzeggiarono” allegramente e ironicamente sulle sue iniziative e sui suoi dirigenti. Insomma, dipinsero il tutto come una meteora che non avrebbe mai brillato o tuttalpiù si sarebbe bruciata presto. Con grande sorpresa alle elezioni politiche del 1994 si affermò il centro destra e Forza Italia diventò il primo partito intascando, alle elezioni politiche ed europee del 1994, rispettivamente 8.136.135 (21%) e 10.098.139 (30,6%) voti. La vittoria elettorale fu possibile grazie all’alleanza con la Lega Nord, Alleanza Nazionale e il Centro Cristiano Democratico e al sistema elettorale maggioritario e uninominale che consentì alla coalizione di centro destra, che aveva riportato 16.585.516 voti, pari al 42,84%, di avere la maggioranza di seggi alla Camera, non al Senato.

Il 10 maggio Berlusconi diventò per la prima volta Presidente del consiglio. La sua affermazione segnò un mutamento di regime senza che si fosse verificata una rottura formale del quadro istituzionale, fu sancita infatti da un regolare esito elettorale. Il progetto berlusconiano si esplicò in quei mesi secondo orientamenti economici liberisti: attacco allo stato sociale, privatizzazioni, riduzione del deficit col taglio della spesa pubblica, avvio di proposte di riforme istituzionali tese a rafforzare il bipartitismo e il potere dell’esecutivo rispetto al Parlamento, critiche a quelle che erano considerate intromissioni della magistratura, in particolare i giudici di Milano, definiti “le toghe rosse” e, infine, avvio di una riforma del sistema pensionistico, che scatenò proteste nel paese con una grande manifestazione nazionale a Roma il 12 novembre 1994. Questi progetti si affiancarono alle iniziative padronali sul terreno della contrattazione salariale e dei rapporti coi lavoratori dando il via ad un’ulteriore frammentazione e precarizzazione della forza lavoro nel settore pubblico e privato; fattori che incisero, modificandola, sulla struttura sociale delle classi, macerando la coscienza dei lavoratori, le vecchie identità e solidarietà.

Se lo dice Prodi…

Le idee politiche contrapposte, nel senso di alternative progettuali di sistema, cedettero via via il posto alla dialettica pro o contro Berlusconi. Era la “morte” della politica. Al berlusconismo si contrappose un antiberlusconismo da professionisti del ramo, necessario ma insufficiente, perché non intaccava le radici del fenomeno, il radicamento sociale, la società che lo aveva prodotto e lo alimentava. Molto si iniziò a fare e a scrivere contro Berlusconi e le sue malefatte vecchie e nuove, ma si trattava di una un agire e di un pensare minuto quotidiano, che non andava al di là dall’attacco alla persona, che non chiamava in causa il sistema, i suoi valori di fondo, il suo funzionamento: una denuncia che riempiva la cronaca ma non creava storia, lasciava tracce nei giornali, senza scrivere progetti alternativi, senza incidere a fondo e in modo duraturo.

Più o meno, al governo o all’opposizione, tutti si muovono entro un paradigma valoriale e progettuale comune, restava quindi solo l’avversione verso la persona, il suo aspetto fisico, i suoi gusti sessuali, la sua vita privata. Svilire l’avversario, ridicolizzarlo, osservava Antonio Gramsci, «è di per sé stesso un documento dell’inferiorità di chi ne è posseduto. In questa tendenza è perciò insito oscuratamente un giudizio sulla propria incapacità e debolezza […] Non si riflette che se l’avversario ti domina e tu lo diminuisci, riconosci di essere dominato da uno che consideri inferiore». Giudizio e critica sempre meno riguardarono il tipo di politica messa in atto e sempre più s’indirizzarono sulla vita privata del politico che la attuava. Le passioni, in una lotta politica ormai ridotta a tifoseria calcistica, crebbero «più violente di prima, perché non erano in gioco diverse idee della storia e del futuro, ma stili di vita, opinioni, valori che riguardano la vita quotidiana. E al posto dei partiti vennero le persone, i leader» (Ilvo Diamanti, «La Repubblica», 1 novembre 2009).

Che tutto sommato centro destra e centro sinistra abbiano fatto le stesse cose, senza grandi differenze, quando sono stati rispettivamente al governo del paese, lo ammette una voce autorevole del centro sinistra italiano, Romano Prodi, per ben due volte Presidente del consiglio. Invece di una politica di rinnovamento e di inversione di rotta rispetto a quella portata avanti rispettivamente da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna negli anni Ottanta, i governi, dice l’autorevole fonte, si «limitavano ad imitare le precedenti politiche dei conservatori inseguendone i contenuti e accontentandosi di un nuovo linguaggio. Sul dominio assoluto dei mercati, sul peggioramento nella distribuzione dei redditi, sulle politiche europee, sul grande problema della pace e della guerra, sui diritti dei cittadini e sulle politiche fiscali le decisioni non si discostavano spesso da quelle precedenti. Il messaggio lanciato all’elettore era il più delle volte dedicato a dimostrare che il modo di governare sarebbe stato migliore. Nel frattempo il cambiamento della società continuava secondo le linee precedenti: una crescente disparità nelle distribuzione dei redditi, un dominio assoluto e incontrastato del mercato, un diffuso disprezzo del ruolo dello Stato e dell’uso delle politiche fiscali, una presenza sempre più limitata degli interventi pubblici di carattere sociale» («Il Messaggero», 14 agosto 2009).

E’ una riflessione amara e spietata, fatta non da un cinico e “vecchio” estremista, ma da un protagonista di alto livello dell’antiberlusconismo. In questo senso, al di là delle sorti personali di Silvio Berlusconi, l’età politica da lui inaugurata non è ancora terminata. E la “morte” della politica permane, anzi si è aggravata secondo il pronostico di Veronica Lario, seconda ex moglie del leader, la quale dichiarò, furente per lo scandalo “Papi” nel 2009: «il vero pericolo è che la dittatura arrivi dopo di lui, se muore la politica, come temo stia accadendo». Difatti venne la “dittatura” dei mercati, della troika e dei governi Monti e Letta, benedetta dalle larghe intese tra il Partito Democratico e quello guidato da Silvio Berlusconi. Passato o costretto all’opposizione, in questi ultimi mesi è stato ripescato dal nuovo leader del Pd dando vita a una “coppia di fatto” sulla base di un accordo per fare una nuova legge elettorale.

di Diego Giachetti