Esercizi di retorica sul DEF. La retromarcia dell’avanzo primario
Mi sorprendo sempre nel notare il grande consumo di intelligenza e talento che circonda le cose economiche. Cervelli oltremodo eccellenti si cimentano in esercizi astrusi, compilano tabelle e disegnano grafici, al solo fine di convincere qualcuno di qualcosa, in un modernissimo esercizio di retorica.
E poiché questo qualcosa ha a che fare con il denaro, in un modo o nell’altro, ecco che ricevono un’attenzione ormai quasi più a nessuno riservata. Sicché finisce che gli economisti, o i semplici compilatori di tabelle e grafici, diventino delle piccole star.
La seduzione dell’economia è il modo contemporaneo col quale celebriamo l’antica e immutabile seduzione del denaro, a ben vedere.
Ed è comprensibile che tutto ciò, specie in tempi di crisi, germini una pletora di popolazioni economaniache.
Oggidì gli studiosi/esperti/appassionati/doscenti/discenti di cose economiche nel nostro paese è probabile abbiano superato per numero quelli che una volta compilavano formazioni e strategie della nazionale di calcio. Da una nazione di commissari tecnici, stiamo diventando una nazione di commissari economici. E non è detto che sia un progresso.
Perciò ogni tanto è utile fermare l’attenzione per far capire di cosa parliamo quando parliamo di economia. O meglio, cosa facciamo quando parliamo di economia.
Meglio di ogni altro ragionamento, varrà un esempio.
Lo spunto me l’ha fornito l’utilissima lettura della relazione del direttore generale della Banca d’Italia Signorini davanti alla commissione congiunta di Camera e Senato, riunita per discettare sul DEF del governo Renzi, che approfondirò un’altra volta, perché c’è tanto da dire e da capire.
Qui però vorrei limitarmi solo a un elemento, che poi è il punto centrale di tutto il costrutto argomentativo della nostra finanza pubblica: l‘avanzo primario.
Il nostro avanzo primario è la superstar del DEF, come d’altronde lo è sempre stato, atteso che misura il saldo fra entrate e spese correnti al netto degli interessi sul debito. O, per dirla in altro modo, sommando algebricamente l’avanzo primario al deficit otteniamo la spesa per interessi sul debito.
Come vedete il modo diverso di dire la stessa cosa ha un effetto notevole sulla percezione della questione.
Ma poiché per discorrere di economia servono i numeri, ecco che la nostra audizione ce ne fornisce a bizzeffe, così come anche di grafici.
Uno in particolare ha catturato la mia attenzione. Ossia quello intitolato “Avanzo primario: obiettivi e consuntivo”, che racconta esemplarmente la storia dei DEF che si sono succeduti dall’aprile 2011 in poi, relativamente a questa variabile.
In questo garbatissimo esercizio della memoria, facoltà purtroppo paradossalmente dimenticata, l’analisi dei DEF degli ultimi tre anni è illuminante.
Il DEF approvato nell’aprile 2011, ad esempio, stimava un avanzo primario di poco superiore al 2% nel 2012, che doveva sfiorare il 4% nel 2013 per superare il 5% nel 2014.
Nella nota di aggiornamento di settembre 2011, il governo dell’epoca addirittura alzò gli obiettivi, stimando un avanzo vicino al 5% nel 2013, con l’obiettivo di superarlo nel 2014.
Settembre 2011, lo ricorderete, era il tempo dell’agonia del governo Berlusconi, che avrebbe preparato il governo Monti, che seguiva a una terribile estate. Chiaro perciò che il governo avesse bisogno di aumentare le rassicurazioni all’interno e all’esterno del Paese. E quale strumento meglio dell’avanzo primario poteva giovare alla bisogna? E’ da almeno vent’anni che inseguiamo la chimera dell’avanzo primario per salvare la nostra finanza pubblica.
L’arrivo del governo Monti, che godeva di altra credibilità rispetto a quello “dimissionato”, riposiziona nuovamente il problema, ma poi neanche di tanto.
Nel DEF di aprile 2012 l’avanzo primario viene stimato fra il 3 e il 4% nel 2012, con l’obiettivo di arrivare pressoché al 5% nel 2013, per superarlo nel 2014. Anche stavolta l’Europa digerì il DEF. Potenza del professore.
Salvo poi, nella nota di aggiornamento di settembre 2012, scoprire che gli obiettivi erano vagamente sovradimensionati. Qui, infatti, l’obiettivo del 2012 viene riabbassato sotto il 3%, più o meno al livello di quanto previsto dal DEF di aprile 2011, quello del 2013 sotto il 4%, esattamente al livello del DEF aprile 2011, per arrivare fra il 4 e il 5% nel 2014, sotto il livello DEF aprile 2011.
Seguirono i soliti applausi e i soliti fischi, a seconda dei mittenti, e furono sprecati i canonici fiumi d’inchiostro a commentare lo sforzo risanatore del governo Monti. Ma alla fine dei conti nessuno sapeva di cosa stesse esattamente parlando. Tantomeno il governo. Anche qui: le stime erano un perfetto esercizio retorico, nulla più.
Un briciolo in più di realtà si affaccia col DEF di aprile 2013, quando l’ormai vacillante governo Monti rifà i conti per annunciare che sì, le stime erano un po’ esagerate. Sicché nel 2012 l’avanzo primario sarebbe rimasto compreso fra il 2 e il 3%, ma anche nel 2013, per arrivare a superare il 3% nel 2014 e il 4% nel 2015, quando ormai la curva crescente dell’avanzo primario avrebbe preso il volo, lanciandosi verso il 5% nel 2016 fino a sfiorare il 6% nel 2017.
Avrete notato a questo punto come l’avanzo primario sia tanto migliore quanto più distante nel tempo. E anche questo è un pregevole esercizio di retorica: figurarsi il futuro sempre migliore del presente per farne sopportare il peso.
Il nuovo governo Letta rivide il DEF a settembre 2013, siamo quasi a nostri giorni, e anche stavolta gli obiettivi furono sensibilmente ribassati. Nel 2013, ormai al lumicino, si confermò il range 2-3%, che sarebbe dovuto diventare il 3% nel 2014 per avvicinarsi al 4% nel 2015. Ma tranquilli: nel 2017 saremmo arrivati al 5% del Pil, livello comunque più basso di quello ipotizzato da tutti gli altri DEF.
Arriviamo al DEF del governo Renzi. Ma prima è utile dare un’occhiata all’unico consuntivo finora disponibile (ossia il dato vero), quello elaborato al marzo 2014. Ebbene, l’avanzo primario, nel 2012, si è collocato fra il 2 e il 3%, ossia quanto previsto nel DEF di aprile 2011, ossia l’unico che ci ha preso, anche se probabilmente sarà l’unico dato azzeccato di quel DEF, visto che i primi dati disponibili sull’avanzo primario del 2013 parlano addirittura di un calo rispetto al 2012, mentre il DEF di aprile 2011 raccontava che nel 2013 avremmo superato il 3%.
Il DEF targato Renzi ritocca ancora al ribasso le stime dell’avanzo primario rispetto alla nota di aggiornamento di settembre 2013. Lasciando da parte il 2013, ormai chiaramente al di sotto di quanto pensavano (o dicevano di pensare) i vari governi, nel 2014 il DEF stima l’avanzo sotto il 3%, che dovrebbe superarsi solo nel 2015, arrivando nel 2016 a superare il 4%, ossia il livello che l’aggiornamento del DEF 2011 stimava per il 2013, così come confermato dal DEF del governo Monti di aprile 2012.
Al livello del 5% non arriveremo neanche nel 2017, quando invece secondo il DEF di aprile 2013 (un anno fa) avremmo dovuto svettare verso il 6%.
Che ci dice tutto questo rosario di cifre?
Se fosse solo che sbagliano sempre le previsioni non sarebbe questa gran novità. E’ sempre difficile fare previsioni, specie quando riguardano il futuro, diceva un famoso scienziato.
Quello che ci dice, questo esercizio di retorica, è altro: l’economia è sempre politica. Ovvero la politica si fa con l’economia, strumento retorico per eccellenza del nostro tempo. Quindi, quando parliamo di economia parliamo di politica usando più o meno spregiudicamente la matematica.
Faremmo sempre bene a tenerlo a mente.
L’invenzione del deficit strutturale
Compulsare i vari documenti che le istituzioni stanno producendo per partecipare al grande rito collettivo del DEF è altamente istruttivo. L’evento economico assume un significato sociale che finalmente trascende la sua miseria contabile per assurgere alla dimensione di ciò che è autenticamente il Documento di economia e finanza: un pregevole esercizio retorico che si nutre di congetture economiche al solo fine di sostanziare un’azione politica di governo.
Che ciò sia il DEF, pochi dovrebbero dubitarne.
Stupefacente invece è la constatazione, che ho tratto leggendo le opinioni sul Def dell’Istat, della Banca d’Italia e della Corte dei Conti, di quando profondo sia tale congetturare.
E, peggio ancora, che tali congetture non si limitino alle stime sul dati del futuro, come pure sarebbe lecito pensare, ma siano inerenti al dato stesso, ossia alla sua costruzione statistica.
Di cosa parliamo, insomma, quando ci riempiamo la bocca e la testa di deficit, indenitamento netto, o, peggio ancora, indebitamento strutturale?
Tecnicamente parliamo di convenzioni statistiche. Non dati oggettivi, quindi, come uno potrebbe pensare, ma costruzioni numeriche discutibili.
In alcuni casi molto discutibili.
Relativamente ai casi nostri, la vicenda del DEF ha un portato di politica, interna e internazionale, che è saggio non sottovalutare. Il governo infatti, nella persona del ministro dell’Economia, ha impugnato la penna e scritto una bella letterina a mamma Commissione Ue per chiedere di poter derogare di un anno il pareggio strutturale di bilancio, che era previsto per il 2015 e invece si propone per il 2016.
Nel 2015, infatti, il deficit strutturale sarà allo 0,1%, e non a zero come aveva assicurato il governo Letta a settembre scorso a fronte di una variazione strutturale in aggiustamento pari allo 0,5% del Pil. Tale deroga dovrà essere approvata dal nostro Parlamento e poi dalle autorità europee.
Tutto questo per un decimo di punto? E che sarà mai?
E invece pesa, perché l’Italia ha un Obiettivo di Medio Termine (OMT) concordato con la Commissione europea che prevedeva, fra le altre cose l’azzeramento del deficit strutturale entro il 2015.
A questo punto le varie tifoserie si saranno scatenate. Solo pochi ficcanaso si sono posti la domanda:ma il deficit strutturale cos’é?
Gli appassionati del genere sanno che il deficit strutturale corrisponde al deficit netto corretto per gli effetti del ciclo economico e delle misure straordinarie. Per dirlo con le parole della Corte dei conti, tratte dall’audizione sul DEF, “l’intento è quello di isolare le variazioni del saldo di bilancio che sono indotte automaticamente dalle oscillazioni del ciclo economico e che, quindi, non possono essere attribuite all’azione discrezionale dei governi”.
In sostanza, il deficit strutturale è un indice della scelleratezza fiscale governativa. E ciò spiega bene perché a Bruxelles ci tengano in tal modo. Tanto più è alto, tanto più il governo non fa il suo dovere: questo è il senso.
Definito l’oggetto, rimane ancora senza risposta la vera domanda: come si calcola una roba del genere?
Deve esser chiaro che rispondere a questa domanda significa credere che sia possibile una risposta sensata. Che nel gergo economico significa una risposta oggettiva e misurabile oggettivamente.
Purtroppo così non è: il calcolo del deficit strutturale è l’ennesimo esercizio di retorica tramite il quale una decisione politica viene camuffata da dato economico che, di conseguenza, genera un’azione politica conseguente.
Penserete che sto esagerando. Ma non dovete ascoltare me, che non so niente. Ascoltate la Corte dei Conti: “La logica sottostante l’adozione di obiettivi di indebitamento strutturale, tesa a sanzionare l’eventuale utilizzo di misure pro-cicliche, si scontra però con un problema di fondo: la non osservabilità dell’indebitamento strutturale”.
Detto in altre parole, non essendo osservabile non dovrebbe esistere.
Perciò si inventa.
“All’inconveniente (la non osservabilità, ndr) si sopperisce mediante l’utilizzo di particolari tecniche statistiche finalizzate a distinguere, all’interno della serie storica del saldo di bilancio, la componente ciclica da quella strutturale”, spiega la Corte, sottolineando però che “queste tecniche possono tuttavia condurre a risultati non univoci e anche fortemente divergenti fra loro a causa dell’ampio ventaglio di ipotesi preliminari che può essere assunto”.
Quindi non solo l’indebitamento strutturale, che decide il nostro futuro, non esiste, ma la sua invenzione sottostà a regole inventate sulle quali non c’è nemmeno concordia, e che potrebbero dare risultati molto diversi fra loro.
La Corte si spinge in avanti e illustra proprio il caso italiano. Da noi
“le misurazioni proposte dalla Commissione europea, che individuano la persistenza nel 2014 e l’ampliamento nel 2015 del deficit strutturale, solleciterebbero il Governo all’adozione di misure correttive, laddove un calcolo alternativo del saldo strutturale su dati OCSE indicherebbe, per lo stesso periodo, una situazione di avanzo”.
Avete capito bene: per la Commissione abbiamo un disavanzo strutturale, che dipende dalla loro classificazione statistica dei dati. Se invece usassimo la classificazione Ocse saremmo in avanzo strutturale.
Tale differenza non pensa neanche poco. Nel grafico contenuto nel suo parere, la Corte mostra che nella misurazione svolta dalla Commissione Ue l’Italia ha un deficit strutturale dello 0,6% sul Pil, circa 9 miliardi, che rimane costante nel 2014, per arrivare allo 0,9%, oltre dieci miliardi, nel 2015. Se invece si utilizzasse la rappresentazione statistica dell’Ocse, l’italia sarebbe stata in avanzo strutturale dello 0,3% del Pil nel 2013, circa 4,5 miliardi, altrettanto nel 2014, e dello 0,1% nel 2015.
Considerate che sulla base dei disavanzi strutturali si misura la qualità dell’azione di un governo in sede europea, ma anche la sua credibilità sul mercato del debito.
E non finisce qua:
“Anche rimanendo all’interno di un stessa fonte statistica, la misurazione del saldo strutturale è soggetta a continue modifiche, con differenze che diventano molto consistenti proprio in occasione dei momenti di inversione del ciclo economico”.
Insomma: il nostro futuro dipende da un dato che non esiste, inventato alla bisogna, sul quale non c’è neanche identità di vedute nella cosiddetta letteratura scientifica e che peraltro si comporta in modo incontrollabile nei momenti in cui dovrebbe essere più stabile.
Ma il peggio sta alla fine:
“E’ stato infine rilevato come, all’interno della metodologia della Commissione UE, agli attuali valori di indebitamento strutturale corrispondano livelli di disoccupazione di equilibrio nell’ordine dell’11 per cento, evidentemente inconciliabili con qualsiasi obiettivo di piena occupazione. Sarebbe dunque lo stesso modello statistico utilizzato per guidare le politiche di bilancio europee a imporre un severo trade-off fra crescita e stabilità delle finanze pubbliche”.
Quale migliore esemplificazione dell’esercizio retorico praticato col linguaggio dell’economia?
La decisione, questa sì politica, impone il “severo trade off fra crescita e stabilità delle finanze pubbliche”. Ciò ha originato un modello statistico che teorizza deficit strutturali, con corrispondente tassi di disoccupazione d’equilibrio, che altri modelli vedono come surplus, sulla base dei quali si impongono politiche restrittive: “aggiustamenti continui”, come dice la Corte.
E gli stati (noi) devono pure pietire una deroga.
Se questo è il gioco, chi voglia salvare la pelle ha solo una chance: deve usare la retorica meglio degli altri.
Deve spararle più grosse.
Dal pareggio (di bilancio) allo spareggio
Il travestimento circa la natura del DEF comincia dal nome, come è giusto che sia in un esercizio di retorica.
Il Documento di economia e finanza, però, svela la sua vocazione autentica quando inizia a sostanziare i suoi effetti, manifestandoli. E sono eminentemente politici.
Nel nostro caso coincidono con la lettera del MEF a Bruxelles con la quale il governo chiede un anno di deroga per arrivareal pareggio del deficit strutturale.
Se ne è parlato in lungo e largo, evitando magari di sottolineare quanto sia convenzionale, e quindi discutibile, la definizione stessa di deficit strutturale alla quale dovremmo impiccarci. E si è anche ricordato che per rendere sostanziale tale deroga è servito un voto a maggioranza assoluta del nostro Parlamento, cui dovrà seguire il placet delle autorità europee. Le stesse che dovranno pronunciarsi molto prestosui nostri squilibri macroeconomici, già giudicati eccessivi e quindi forieri di ulteriori interferenze europee nelle nostre politiche fiscali.
Ecco perciò che un numero immaginario, il famoso disavanzo strutturale, diventa il fatto politico di rilievo che origina azioni politiche assai rilevanti.
Da Bruxelles si sono affrettati a rispondere alla lettera di Padoan che “valuteranno il percorso di rientro italiano”, come peraltro è scritto nelle stesse regole che chiediamo di derogare. Che significa tutto e niente. O soltanto che, come al solito siamo sorvegliati speciali.
Il caso italiano ha l’aggravante di avere tutti i numeri contro. Gli unici indicatori positivi sono l’avanzo primario, che però nell’immediato è previsto in calo, il livello di deficit, che rimarrà sotto il 3%, sempre nell’immediato, eil saldo del conto corrente, di recente tornato in attivo, che però scontail previsto calo dell’export netto, che rischia di farci ripiombare nel deficit.
In questa situazione, le regole di bilancio, che molto opportunamente Bankitalia ha ricordato nella sua audizione sul DEF pesano come macigni.
Per chi non lo ricordasse, con l’approvazione in Costituzione, nel 2012, abbiamo accettato di avere regole di bilancio europee sull’indebitamento netto, la spesa pubblica e il debito. Il famoso fiscal compact di cui si fa grande uso nei talk show, sempre retoricamente in funzione di spauracchio.
La questione merita un approfondimento.
La regola dell’indebitamento netto implica che per i paesi non soggetti a procedura per disavanzo eccessivo (ne siamo usciti da poco)il famoso disavanzo strutturale debba essere inferiore o uguale all’obiettivo di medio termine (OMT) fissato per il paese. Se il disavanzo eccede tale obiettivo, deve essere ridotto di almeno dello 0,5% del Pil l’anno.
Per l’Italia l’OMT è il mitico pareggio di bilancio. “Nel 2014 – dice Bankitalia – gli andamenti tendenziali indicano una riduzione del disavanzo strutturale pari allo 0,2% del Pil. Sarebbe richiesto quindi un ulteriore aggiustamento di circa lo 0,3%”, per arrivare a un indebitamento strutturale pari a meno -o,1% del Pil nel 2015.
Ciò spiega perché il governo, adducendo le famose circostanze eccezionali (fra le altre cose il pagamento dei debiti della PA) ha chiesto la deroga, affiancandole un piano di rientro che prevede un aggiustamento strutturale del famoso disavanzo pari allo 0,5% del Pil nel 2015, anziché doversi fare carico di un aggiustamento dello 0,3% quest’anno. Parliamo di circa 4,5 miliardi. In sostanza si rimanda a domani quel si dovrebbe fare oggi, come peraltro noi italiani siamo maestri nel fare, sperando che la ripresa e la ventata riformista del governo dia una mano dal versante della crescita.
Su questa strategia, la Corte dei conti, che pure mostra di comprendere il momento, osserva che sarebbe buona norma fare le correzione (quindi i tagli) quando c’è la ripresa piuttosto che quando c’è crisi. Ma il momento, appunto, è topico.
Sostanzialmente ci stiamo giocando il tutto per tutto.
La regola della spesa prevede invece che per i paesi che non hanno ancora raggiunto il proprio OMT, quindi anche noi, la crescita annua della spesa pubblica, al netto delle componenti fuori dall’azione del governo (vai a capire come si calcolano), debba essere inferiore a quella di medio periodo del Pil potenziale (altra variabile immaginaria). L’entità dello scarto deve garantire un saldo strutturale di almeno lo 0,5% del Pil, con l’avvertenza che una crescita della spesa superiore non è interpretata come una violazione se è compensata da aumenti discrezionali delle entrate.
Che significa?
Ecco, già il fatto che qualcuno debba spiegarlo sostanzia il cuore del problema. Uno dei trucchi dei retori è spiazzare l’interlocutore con preposizioni astruse dall’aria seria e credibile. Apodittiche, si dice. E cosa c’è di più apodittico di un regola costitituzionale?
Bankitalia ci dice che
“nel triennio 2011-13 la dinamica della spesa è stata ampiamente al di sotto del limite prescritto dalle regole europee. Per il triennio 2014-16, il limite superiore calcolato dalla Commissione per l’Italia è pari a -1,07 per cento in termini reali; nelle proiezioni elaborate dal Governo sotto l’ipotesi di invarianza delle politiche di bilancio, la dinamica della spesa sarebbe significativamente superiore”.
Ricordatevi queste parole: proiezioni, ipotesi di invarianza, sarebbe superiore, limite superiore calcolato (non sappiamo come). Come vedete nulla di reale: solo congetture. Ma terribilmente cogenti.
Forte di tanta apodittica indimostrabile, il novello retore (nel caso specifico la Commissione Ue, ma vale per l’economia applicata) detta la sua regola normativa. E quindi fa politica.
Provo a tradurre il commento di Bankitalia in parole comprensibili: prima non abbiamo sforato, ma sforeremo dopo, secondo quanto si può ipotizzare.
Il che ci mette nella difficile posizione di interlocutori poco credibili.
Screditare l’interlocutore è un altro caposaldo del dibattere retorico.
Attenzione: la regola della spesa vale solo se falliamo l’obbiettivo di medio termine, ossia sempre il solito pareggio.
Non finisce qui. C’è anche la regola del debito.
Il six pack prevede che nei paesi il cui il rapporto da debito e prodotto ecceda il 60%, tale differenza debba diminuire di un ventesimo l’anno nella media di un triennio. Per l’Italia, che era sottoposta a procedura di infrazione nel 2011, è stato previsto un periodo di tre anni di transizione dal momento in cui la procedura viene chiusa, ossia dal 2013.
“In tale periodo – spiega Bankitalia – la regola del debito si ritiene soddisfatta se lo stato membro consegue una riduzione annua minima del disavanzo strutturale (minimum linear structural adjustement, MLSA) calcolata dalla Commissione UE”.
Ricordo a tutti che il disavanzo strutturale è una variabile che la Corte dei Conti ha definitoimpossibile da osservare. E sottolineo che, ancora una volta la commissione calcola (non sappiamo come) un dato che diventa un obiettivo politico.
Ebbene,
“lo scorso novembre – dice Bankitalia – la Commissione ha indicato che il MLSA per l’Italia è definito da una riduzione del disavanzo strutturale (sempre lui, ndr) di almeno 1,32 punti percentuali del PIL nel complesso del biennio 2014-15. La riduzione prevista nel DEF è di 0,7 punti. Va rilevato tuttavia che la Commissione potrebbe rivedere al ribasso l’MLSA tenendo conto degli introiti delle dismissioni programmate”.
Notate la finezza: 1,32% del Pil. Chi dubiterebbe dell’accuratezza del calcolo a questo livello di dettaglio?
Un altro espediente del retore è far credere che le sue informazioni siano sempre accurate.
Comunque, stando a quanto dice Bankitalia, siamo fuori anche dalla regola anche nel periodo di transizione.
E dopo?
“La regola dovrà essere rispettata con riferimento alla variazione del debito nel triennio 2013-15 (versione backward looking, con e senza correzione per l’impatto del ciclo economico) oppure nel triennio 2015-17 (versione forward looking). Il quadro programmatico del DEF rispetta la regola sul debito nella versione forward looking. Se gli andamenti macroeconomici dovessero discostarsi, anche di poco, dalle previsioni contenute nel DEF, o se non si realizzassero integralmente le dismissioni programmate, il rispetto della regola sarebbe messo a repentaglio”.
Insomma: rischiamo di fare un altro botto.
“Le regole di bilancio europee – conclude comprensiva Bankitalia – possono apparire complesse e, pur con i loro margini di flessibilità, stringenti, ma esse rispondono all’esigenza di assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche e ricondurle all’equilibrio. Occorre inoltre ricordare che esse appaiono oggi vincolanti anche perché abbiamo lasciato crescere in passato, senza sufficiente controllo, la spesa e il debito pubblico”.
Anche qui, appartiene al discorrere retorico trovare sempre una morale nella storiella.
Poiché sono appassionato di retorica, l’avrete capito, ovvero di quello che gli antichi chiamavano l’arte del discorrere e del persuadere, ho pensato di sintetizzare questa noiosa cavalcata fra le regole europee sulla finanza pubblica trasformandola in un’altra storiella, che sarà magari meno istruttiva, ma certamente non meno realistica di quella che ci ha raccontato Bankitalia.
Un bel giorno in Italia, squadra con evidenti difficoltà e a rischio retrocessione, arriva un nuovo capitano che, forte del suo giovanile entusiasmo e del desiderio di speranza dei suoi giocatori lancia il cuore oltre l’ostacolo e decide di giocarsi la sua partita della vita, che incidentalmente è anche la nostra.
La squadra del premier scende in campo contro la squadra avversaria, l’Europa, agguerritissima, composta da bomber stranieri, per lo più nordeuropei, temutissimi per la loro capacità di fare gol e grandi praticanti dell’astruso gioco a schemi.
Ma la strategia del premier spiazza l’avversario. Portato all’attacco da ali di folla speranzosa, il premier parte in contropiede e segna un spettacolare gol in rovesciata.
GOL: urla l’Italia. La speranza arride a molti, cui viene promesso una goleada.
Ma l’Europa ha dalla sua terribili regole di gioco, che prevedono che ogni giocatore non possa calpestare durante la corsa un valore presunto di fili d’erba superiore allo scarto medio quadratico del flusso tendenziale delle ricrescita prevista, e che, nel caso, debba rientrare precipitosamente in area seguendo il fischio dell’arbitro.
Che infatti fischia.
Il quarto uomo agita la bandierina, gli arbitri si riuniscono in conventicola, incuranti delle proteste del pubblico da casa, mentre i giocatori italiani assicurano che un loro personalissimo algoritmo assicurerà la ricrescita dell’erba nei tempi stabiliti. Ma molti osservano che la squadra italiana non è nuova a questi espedienti e che, dati alla mano, non è molto credibile.
La partita riprende con gli italiani impegnati a fare quello che fanno meglio: litigano fra loro. Così la squadra avversaria approfitta e affonda in campo.
Il temibile numero 10 dell’Europa, biondo e azzurro d’occhio, segna e chiude la partita in parità.
La squadra italiana festeggia: le hanno sempre detto che bastava il pareggio per salvarsi.
Ma invece viene fuori che c”è sempre dell’altro di cui dover tener conto, scritto in piccolo nel manuale delle regole di gioco.
Conclusione. Il salvataggio torna incerto. Il pareggio non basta.
Serve uno spareggio.
di Maurizio Sgroi