La società aperta di Popper e i “guardiani” liberisti. Per niente platonici e frugali, ma molto mediatici.
Tra le grandi utopie autoritarie, riemergenti nel corso della Storia, Popper individuò quella della Città Perfetta di Platone.
In essa, Popper, trovò proprio la radice delle varie forme di totalitarismo statale, incentrate sulla convinzione di aver trovato una verità assoluta e finale.
La cosa che può apparire singolare, alla luce delle vicende che si stanno verificando in €uropa – e che, in senso “derivato” e “mediatico“, come vedremo, trovano il loro acme in Italia-,è che Platone fosse addirittura accusato di “comunismo”, in base alle teorie da lui elaborate sulla conduzione politica della comunità sociale.
La “Res Publica” da lui concepita era, essenzialmente, (come evidenzia Galbraith nella sua “Storia dell'economia”; pagg.26-27), quella di una “entità” economica, cioè come insieme delle diverse occupazioni e professioni necessarie per la vita sociale (in queste includeva senza alcun problema la presenza degli schiavi, ma era un tratto comune a tutti gli uomini della sua “era”).
La teoria platonica più censurata, però, era relativa a quella che noi chiameremo oggi “classe dirigente“: alla vita civile dovevano infatti presiedere i “guardiani“, guide perfette ed impeccabili che – ed è questo il punto che sconvolse, secoli più tardi, i borghesi saliti al potere nell'ubriacatura liberista di matrice teorico-filosofica anglosassone- dovevano condurre una vita di ascetica rinuncia.
A tali guardiani, ma solo ad essi, badate bene!, era preclusa la proprietà individuale ed ogni forma di arricchimento, potendo possedere solo ciò che fosse strettamente necessario per soddisfare i bisogni essenziali.
Ne “La Repubblica”(417 a-b, Laterza, pag 138), Platone giustifica così tale assetto: “Quando però s'acquisteranno personalmente la terra, case e monete, invece di essere guardiani, saranno amministratori e agricoltori; e diventeranno padroni odiosi anzichè alleati degli altri cittadini“.
Insomma, alla base della piramide sociale era ammessa la libera iniziativa; ma il potere di vertice, almeno in una forma di equilibrio proposta come soluzione-verità definitiva, doveva appartenere a coloro che testimoniavanoun'etica della ricchezza che apparve, ai liberisti difensori (e spesso protagonisti diretti) del capitalismo “classico” (ovverosia “sfrenato”, secondo la definizione dello stesso Popper), una forma di comunismo (almeno come concezione della proprietà).
Inutile dire che i pensatori più attenti, trovando ridicola l'idea che un filosofo del V-IV secolo di fama universale, potesse finire, con buona probabilità, sotto l'occhio inquisitorio del Federal Bureau of Investigation ai tempi delle denunce del senatore McCarthy, evidenziarono ciò che, invece, era del tutto evidente (ma per i liberisti, l'esigenza di autodifesa, determinata dalla molto personale ed interessata esigenza di legittimazione delle loro possibilità di accumulo in danno della collettività, è automaticamente un velo che impedisce di scorgere anche la mera realtà logica di un testo).
Persino un conservatore come Alexander Gray (in “The Development of Economic Doctrine“, Londra 1948), si preoccupò di precisare che La Repubblica di Platone, al più, predica il comunismo di una elite, non un modello sociale generale ed impositivo.
Lungi dal sostenere la rivolta contro i “rapporti di produzione” e di classe, e dall'insinuare, anche solo lontanamente, l'eguaglianza sociale ed economica di tutti gli appartenenti alla “Città”, la sua oligarchia, o meglio aristocrazia di “filosofi”, frugale e virtuosa, serviva al contrario a conservare per sempre tali rapporti e ad incrementare la prosperità di coloro che erano dediti ai vari traffici e mestieri.
Se l'accusa di comunismo a Platone era e rimane una ridicola manifestazione di conflitto di interessi, di fronte al minimo accenno che potesse svilire la ricchezza come criterio gerarchico sociale, non di meno Popper, nel suo atteggiamento epistemologico teso ad evidenziare la “falsificabilità” di ogni conquista scientifica proposta come definitiva, criticò Platone proprio su questo piano; cioè, per la sua radicalità utopistica e instauratrice di una società perennemente “chiusa”, e, quindi, non “aperta”, quale egli predicava nell'ottica di un vero liberale.
Va detto che la società aperta era intesa da Popper come manifestazione non di una democrazia che decretasse la illimitata legittimazione della maggioranza, cioè del risultato elettorale, ma, al contrario, come di una sintesi di regole irrinunciabili che tenessero viva proprio la minoranza e la sua visione politica.
La vera democrazia, dunque, si realizza solo nella societàaperta, cioè orientata istituzionalmente alla compartecipazione e valorizzazione della minoranza, in modo da preparare la sempre possibile, e vivificatrice, alternanza di diverse concezioni della vita sociale.
Ora il bello (o meglio il “brutto”) è che Popper fu apprezzato e portato sugli scudi solo finchè si temeva la minaccia comunista e venivano negate, come compromesso obtorto collo, le verità definitive della teoria neo-classica in economia; negate cioè, si riteneva, in nome del welfare e dell'applicazione delle teorie keynesiane di sostegno pubblico alla domanda aggregata.
Non appena i neo-classici,ridenominatisi in modi nuovi ma su teorie alquanto “visitate” nella loro breve ma ripetitiva tradizione, hanno potuto riaffermare la morsa d'acciaio del liberismo e reclamare la incontestabilità della pretesa scientificità “matematica” del loro modello economico (c.d. marshalliano), – basato sulla fede ipocrita nei “mercati” e sull'agire riequilibratore, del tutto immaginario della legge della domanda e dell'offerta, nonchè della legge di Say -, Popper è stato dimenticato.
Ma dimenticatototalmente, non potendo più servire neppure come monca citazione estrapolata, per controbattere uno strapotere “comunista” di cui, ormai, tutto si può direfuorchè che sia proprio della maggioranza.
La portata tirannica della maggioranza, comunque ottenuta nella possibile manipolazione della pubblica opinione, è ormai un tema dimenticato. Ed in favore del supremo “bene” della governabilità…da parte di una maggioranza che tale non è, ma che della stessa vena tirannica, basata sullo sbandierato consenso elettorale, si vuole appropriare con ogni mezzo.
Mi ha colpito, allora la vicinanza di questo scritto, trovato in rete con quanto sostenuto in questo blog.
Naturalmente esso è riferito alla singolare sorte di Popper e della sua “società aperta”, ma in sostanza, anche questo blog si muove sulla stessa linea di resistenza alla tirannia. Sentite:
La società aperta teorizzata da Popper è antitetica rispetto a quella totalitaria: nel solco del liberalismo, il filosofo pensa a un modello nel quale l’individuo conti più dell’astratta somma delle parti su cui si fonda lo stato etico platonico o hegelo-marxista; nella società aperta il mondo ha il diritto di evolversi e le regole che lo governano si possono modificare come l’epidermide asseconda la crescita del corpo.
Le regole, secondo Popper, sono la garanzia della parità di condizioni e nel suo ultimo intervento pubblico – Cattiva maestra televisione – il filosofo prende parola sullo strumento principale della manipolazione del consenso e sui suoi pericoli. Se non c’è libero accesso ai media e se questi sono in mano a persone senza scrupoli e prive di senso di responsabilità in rapporto all’impiego di tali strumenti, la democrazia è in grave pericolo.
Strana sorte quella di Popper, avere difeso la democrazia contro i suoi nemici e poi aver visto i suoi cosiddetti ‘amici’ lottare quasi ovunque per appropriarsi dell’egemonia mediatica, svuotando, di fatto, la società della sua autentica, indispensabile apertura“.
di Quarantotto