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Diritti del lavoratore: le mansioni e la professionalità

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a cura del Dr. Giuseppe Pietro Mancarella – Dottore Commercialista e Revisore Contabile

La tutela delle mansioni e della professionalità del lavoratore

Le mansioni indicano l'insieme dei compiti e delle specifiche attività che il prestatore di lavoro deve eseguire nell'ambito del rapporto di lavoro. Le mansioni costituiscono l'oggetto specifico dell'obbligazione lavorativa e sono individuate nel contratto di lavoro. Tutto questo trova fondamento nel principio di contrattualità delle mansioni, sancito dall'art. 2103 c.c. come novellato dall'art. 13 dello Statuto dei Lavoratori, secondo cui: «il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto […] ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte […]».  Ogni patto contrario è nullo.

Nell’ambito dello svolgimento della sua attività, il lavoratore è soggetto a numerosi obblighi: oltre a quelli di lealtà, riservatezza egli deve usare nel suo lavoro la diligenza richiesta dalla natura della prestazione e dall’interesse dell’impresa e dipende dalle mansioni assegnate ed è collegata anche ad esigenze organizzative e funzionali dell’impresa. Fa parte del dovere in oggetto, anche l’obbligo del lavoratore di acquisire le competenze professionali indispensabili per l’espletamento della attività lavorativa in atto.

L’art. 2103 del Codice Civile stabilisce che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione.

Infatti, lo stesso art. 2103 del Codice Civile prevede che nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta,ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratto collettivi, e comunque non superiore a tre mesi.

È vero che il prestatore di lavoro può essere adibito alle mansioni di assunzione, ma anche alle mansioni corrispondenti alla categoria o livello superiore che abbia successivamente acquisito oppure a mansioni equivalenti a quelle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione.

Codice Civile art. 2103 ” Mansioni del lavoratore”: Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto [disp. att. c.c. 96] o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive . Ogni patto contrario è nullo.

Comunque bisogna distinguere tra le mansioni esecutive e i compiti. Generalmente le mansioni sono correlate ad attività lavorative strettamente legate agli ordini ricevuti dal datore di lavoro. Per quanto riguarda la definizione di “compiti”, in questo caso c'è una prestazione lavorativa che mette in campo anche le capacità intellettive di colui che le svolge. Le mansioni costituiscono l'oggetto dell'obbligazione dovuta dal lavoratore con la sua prestazione (il corrispettivo della prestazione di lavoro è la retribuzione).

È possibile modificare le mansioni del lavoratore, attraverso il cosiddetto jus variandi, che indica il potere del datore di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore oltre l’ambito convenuto, nel rispetto della legge, dei contratti collettivi e del principio generale di buona fede. In ottemperanza all'art. 36 Cost. nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta. Inoltre, al fine di tutelare il lavoratore che abbia acquisto una professionalità l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi.

In particolare l’art. 2103 del Codice civile pone il divieto di assegnare il lavoratore a mansioni inferiori (cd. mobilità verso il basso), a meno che non si sia in presenza di esigenze straordinarie sopravvenute e temporanee, oppure per tutelare la salute del lavoratore o il suo interesse alla conservazione del posto di lavoro (è il caso della lavoratrice madre), ovvero in caso di crisi aziendale con soppressione del posto di lavoro e delle corrispondenti mansioni. La legge n. 223 del 1990 disciplina tale ipotesi agli artt. 4 e 9, mentre per motivi sanitari il lavoratore può essere spostato temporaneamente a mansioni inferiori per essere allontanato da esposizioni nocive (art. 8 del decreto legislativo 15 agosto 1991 n. 277.

Oltre questi casi, il lavoratore può rifiutarsi di svolgere mansioni diverse da quelle per le quali è stato assunto.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 4063 del 22 febbraio 2010, hanno affermato che il demansionamento, quando provoca danni all’integrità psico-fisica del lavoratore, sfocia nel mobbing. La Cassazione ha precisato che il danno conseguente al demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, ed ha, peraltro, riconosciuto il particolare rilievo della prova per presunzioni per cui, dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti, quali le caratteristiche, la durata, la gravità e la frustrazione professionale, attraverso un prudente apprezzamento, è possibile risalire all’esistenza del danno. La Suprema Corte ha, altresì, stabilito che può configurarsi una condotta lesiva dell’integrità fisica e morale dei propri dipendenti anche da parte di una Pubblica Amministrazione (ente locale, s.p.a. pubblica, ecc.), quando siano violati gli specifici obblighi di natura contrattuale che l’art. 2087 c.c. pone in capo al datore di lavoro privato. Nel caso di specie, nell’ambito di un piano di riassetto, in un primo momento, il lavoratore era rimasto sostanzialmente privo di specifiche mansioni da svolgere e, successivamente, era stato adibito ad attività del tutto marginale e non riconducibile al suo livello di inquadramento. L’inerzia dell’amministrazione rispetto alle accertate richieste del dipendente, tese a non compromettere il patrimonio di esperienza e qualificazione professionale, avrebbe provocato l’insorgenza di disturbi di natura psicosomatica a carico del lavoratore, tali da costringerlo al pensionamento anticipato. La Corte di Cassazione ha, infine, stabilito che la liquidazione del danno non patrimoniale non può essere simbolica, ma deve essere adeguata all’entità del pregiudizio effettivo subito dal lavoratore.

Analisi dell'articolo 39 comma 1 Costituzione (“L'organizzazione sindacale è libera”): tale comma riveste un'importanza fondamentale in quanto sancisce il principio di libertà di organizzazione sindacale e soprattutto in quanto segna un netto distacco rispetto alle posizioni prese in epoca precedente dal legislatore nei confronti delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei loro strumenti rivendicativi (dapprima vietati dal Codice penale sardo del 1859, poi tollerati penalmente ma non civilmente dal Codice Zanardelli del 1889 e infine rigidamente regolate e controllate nel periodo corporativo fascista).

Il fatto che il disposto costituzionale faccia riferimento alla parola “organizzazione” è già di per sè un fatto importante: in tal modo si allarga anche ai movimenti sindacali che non rivestono il carattere associativo il principio della libertà di organizzazione sindacale; questo consente l'estensione di tale principio anche ad es. a comitati istituiti per fini particolari e dunque non permanenti.

L'aggettivo “sindacale” a cui deve conformarsi l'organizzazione dei lavoratori per godere della tutela del comma 1 dell'art. 39 Cost. è identificabile attraverso 3 diversi criteri:

il criterio teleologico, secondo il quale un'organizzazione è sindacale quando è finalizzata all'autotutela di interessi collettivi connessi a rapporti giuridici in cui sia dedotta l'attività di lavoro;

 il criterio strumentale, secondo la quale un'organizzazione sindacale per essere tale deve perseguire il fine stabilito dal criterio teleologico attraverso strumenti rivendicativi e/o conflittuali (contrattazione collettiva e sciopero in primis);

– il criterio soggettivo, in basa al quale l'autotutela di interessi collettivi connessi a rapporti giuridici in cui sia dedotta l'attività di lavoro deve avvenire ad opera dei lavoratori o di loro immediati rappresentanti.

La libertà configurata dall'art. 39 comma 1 Cost. può essere identificata come libertà individuale (positiva o negativa, v. art. 15 Statuto dei Lavoratori) di adesione e partecipazione ad un'organizzazione sindacale, come libertà collettiva per i lavoratori di costituire organizzazioni sindacali, come libertà da far valere nei confronti delle pubbliche istituzioni, le quali non possono dunque intromettersi in alcun aspetto organizzativo del sindacato, oppure ancora come libertà da far valere nei confronti del datore di lavoro,

infatti, il datore di lavoro secondo il disposto dell' art. 15 Statuto dei Lavoratori non può subordinare l'assunzione di un lavoratore, il suo licenziamento o il suo trasferimento alla sua adesione o meno ad un determinato sindacato né al fatto che egli cominci o cessi di farne parte.

 La dottrina è inoltre concorde nell' individuare nell'art. 39 comma 1 Cost. non soltanto una mera libertà di organizzazione sindacale, ma anche libertà di azione sindacale (in connessione con l'art. 40 Cost. che tutela il diritto di sciopero) e contrattuale. In ogni caso bisogna precisare che tali libertà, al contrario di quella di organizzazione sindacale, non si configurano per i lavoratori come una pretesa/diritto da far valere nei confronti del datore di lavoro.

Nonostante l'importanza fondamentale rivestita da tale comma nel dettato costituzionale, bisogna chiarire che esso sarebbe rimasto semplicemente un mera dichiarazione di principio se non fosse intervenuto il legislatore che attraverso il titolo II dello Statuto dei Lavoratori ha dato effettivamente diritto di cittadinanza ai sindacati in azienda e per mezzo del Titolo III ha addirittura esteso il campo di libertà di organizzazione sindacale alle associazioni aventi i requisiti ex art. 19 Statuto dei Lavoratori.

I contratti conclusi tra il sindacato e le associazioni dei datori di lavoro sono dunque contratti di diritto comune soggetti alla disciplina dettata dal codice civile (artt 1321ss) e sono validi solo per le parti che li stipulano. Il legislatore ha tentanto più volte attraverso strumenti legislativi (es l.n. 741/1959 cd “Vigorelli”) di estendere l'efficacia erga omnes ma tale prassi è stata dichiarata incostituzionale.

La nostra Costituzione intende il lavoro non solo come mezzo per procurarsi il reddito necessario ad una vita dignitosa per sé e per la propria famiglia, ma anche come strumento per la realizzazione della persona e della sua crescita professionale.

Il valore della professionalità, per questo motivo, è a centro del diritto del lavoro e delle tutele previste dal legislatore. “Il lavoro non è una merce”: non è solo uno slogan sindacale, ma sintetizza appieno l’importanza della persona del lavoratore e del suo bagaglio professionale nell’ambito del rapporto di lavoro.

Per queste ragioni, la legge vieta lo spostamento a mansioni inferiori cioè il c.d. “demansionamento”.

Cosa fare, però, a fronte di un ordine di questo genere ? 

Come tutelarsi quando – pur di non perdere il posto di lavoro – si sia accettata la decisione del proprio datore di lavoro ?

In altri casi, ancora, dopo aver svolto mansioni superiori si impone un declassamento alle mansioni precedenti.

Spesso queste decisioni datoriali non sono lecite ed il lavoratore potrebbe tutelarsi pretendendo di conservare la posizione professionale che ha raggiunto nel corso del rapporto di lavoro.

Sotto un altro punto di vista, la legge promuove la crescita professionale mediante la previsione di specifiche forme contrattuali (l’apprendistato e il contratto di inserimento) con le quali al datore di lavoro si impone di assicurare al lavoratore una adeguata formazione. Spesso, però queste tipologie contrattuali vengono utilizzate solo come pretesto per godere delle agevolazioni contributive e dunque al solo fine di ridurre il costo del lavoro, mentre al lavoratore è richiesto unicamente di lavorare, senza alcun tipo di formazione.

I casi di violazione dell’integrità professionale e di abuso dei contratti con finalità formativa sono numerosi (si pensi, solo per fare un altro esempio, allo stage). Non sempre però si ha la dovuta cognizione dei propri diritti e delle tutele apprestate dal legislatore.