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Quando tutti vorrebbero vendere i beni pubblici io dico: compriamoci la Sardegna

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Oltre due anni fa avevo scritto un articolo intitolato “Compriamoci la Grecia” che aveva spopolato sul Corriere.it in misura tale che, per un mese, sono venute televisioni dalla Grecia e dalla Germania a intervistarmi e sono stata sulle prime pagine dei giornali di mezza Europa. Il senso dell'articolo era chiaro ma invisibile a chi non riusciva a vedere la realtà. In quel periodo era appena iniziata la crisi finanziaria in Grecia e le televisioni martellavano con servizi su come i Greci erano stati cattivi e come dovevano essere puniti.

La cura, come ormai sappiamo tutti, sarebbe stata di venderei propri beni pubblici e di tagliare sullo stato sociale. Una sera, un ennesimo servizio alla televisione descriveva come si stavano facendo le privatizzazioni, attraverso società di consulenza internazionali, e i prezzi di vendita dei vari gioielli greci: dalla società di telecomunicazioni alle autostrade, dalle infrastrutture alla cultura. I prezzi erano talmente bassi che mi montò una rabbia e dissi a mia figlia “Se la vogliono comprare e pure ai saldi! Il vero obiettivo sarà l'Italia o la Francia. Ma a questi prezzi ce la compriamo noi!”. Mia figlia rispose chiedendomi se avevamo i soldi necessari ed io cominciai a spiegare che non si trattava di “noi” come singole persone, ma “noi” come gruppi di cittadini.

Con Gavin Tulloch e Alessandro Politi riflettemmo per giornisugli scenari che si stavano aprendo e capimmo benissimo quello che sarebbe successo e che si sta ancora verificando. E' ancora tutto documentabile su internet al sito www.europeancommongoods.org. Da pragmatici quali siamo, cominciammo a pensare a come bloccare le vendite dei beni e delle società pubbliche in modo che continuassero a creare ricchezza per la società e non per la speculazione. Senza beni pubblici si torna al medioevo e aumenta la disparità fra ricchi e poveri (le uniche auto che si vendono in Grecia sono le Porsche). Trasformare la Grecia in un centro balenare gestito da multinazionali del turismo che si fanno arrivare i prodotti agricoli con gli aerei e che hanno base in qualche paradiso fiscale, significa trasformare una popolazione in camerieri e facchini. Significa chiudere le università e vivere di briciole.

Accumulo contro Redistribuzione. Si sa bene che i criteri del massimo profitto non possono essere utilizzati per servizi che hanno lo scopo di ridistribuire benessere fra la popolazione. Alcune scelte strategiche portano vantaggi solo nel lungo termine e possono essere misurate solo con indicatori che tengano conto della pace, della salute e della felicità. Ossia di indicatori che siano più concentrati sulla ridistribuzione che sull'accumulo. L'idea dell'articolo era quella di dichiarare alcuni beni come “beni comuni” e perciò non alienabili o cedibili. Quello che era accaduto al Pireo, il porto di Atene diventato cinese per 30 anni con tutta una serie di clausole contrattuali che avvantaggiavano le imprese e i cantieri navali cinesi rispetto a quelli europei.

Il problema in Italia, era però quello dello stato di decadenza di molte opere e infrastrutture che avevano bisogno di grandi interventi di manutenzione straordinaria. Un esempio sui giornali di allora era il sito archeologico di Paestum, così invaso dai rifiuti e devastato dall'incuria da non essere più una esperienza per turisti ma per amanti dell'horror. Per ridistribuire benessere, quindi, ospedali, scuole, siti archeologici, musei, ferrovie locali (e anche società pubbliche di vario tipo) dovevano, e devono ancora, essere riportare non solo alla piena operatività ma devono tornare ad essere il centro della vita economico-sociale delle comunità locali. Come fare a trovare i fondi?

La Costituzione italiana prevede che alcuni beni di pubblicautilità possono essere gestiti direttamente da gruppi di cittadini. L'idea quindi era ed è quella di creare forme di cooperative moderne in cui le persone investono i loro risparmi, il loro tempo o le loro capacità nel rilancio di questi beni comuni. Solo chi investe può essere protagonista e questo metterebbe fine a tutte le clientele e le assunzioni di comodo.

Società del genere non sono facilmente codificabili, alcune sono ad alto valore tecnologico, altre richiedono molta manodopera specializzata, ma l'idea base è che ognuno deve investire qualcosa, in modo che il suo destino sia legato al benessere di questo bene, e che ognuno abbia diritto di voto nelle decisioni strategiche di medio periodo. Altrimenti i manager sceglierebbero sempre soluzioni di vantaggio immediato che li pongono in buona luce agli occhi degli analisti finanziari ma che sono letali per la società.

A Roma l'esperienza del Teatro Valle Occupato è un esempio reale di come questa soluzione è realizzabile. Ma ormai si contano a decine e centinaia le società anche private che sull'orlo della delocalizzazione o della chiusura sono oggi ancora funzionanti grazie all'autogestione dei dipendenti. In Argentina questa situazione di gestione cooperativa si è verificata in molte fabbriche dopo il crollo economico del paese, e la fuga dei capitali e capitalisti, ed ha permesso a migliaia di famiglie di riavviare percorsi di crescita economica e, soprattutto, ha ridato speranza. Oggi l'Argentina è un esempio di economia alternativa alle regole del FMI e sui giornali di mezzo mondo si parla della guerra delle due Christine (Christine Kirchner presidente dell'Argentina contro Christine Lagarde del FMI).

Oggi la situazione in Italia è peggiorata, ma quello che mi dispiace è che il termine “Bene Comune” sia stato strumentalizzato in modo ideologico da destra e da sinistra tanto da essere inserito nei programmi elettorali come slogan. Dietro lo slogan non c'è un programma di azione o una vera proposta, ma solo dibattiti giuridici su cavilli e su sfumature di pensiero. Miei cari amici sardi, dopo la Grecia ora mi sembra che la Sardegna sia in vendita. Vogliamo fare qualcosa? Compriamoci la Sardegna!

di Claudia Bettiol