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Disoccupazione giovanile, diseguaglianze distributive e “meritocrazia”

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L’ultimo Rapporto OCSE (link) mette in evidenza il fatto che il tasso di disoccupazione è in crescita in quasi tutti i Paesi industrializzati e, in particolare, nell’eurozona e in Italia. Banca d’Italia, fin da 2010, registra che la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti (link), e che la crescita della disoccupazione riguarda principalmente la componente giovanile della forza-lavoro. Il tasso di attività di individui di età compresa fra i 15 e i 64 anni, nel 1993, era del 58%, a fronte del 42% di quello di individui collocati nella fascia d’età 15-24. Nel 2004, il tasso di attività nella fascia d’età 15-64 è aumentato collocandosi a oltre il 62%, mentre, nello stesso arco temporale, si è ridotto il tasso di attività giovanile, collocandosi intorno al 35%. Nel corso degli ultimi anni, il divario fra occupazione “adulta” e occupazione giovanile è costantemente aumentato, portando il tasso di disoccupazione giovanile a circa il 40% (fonte ISTAT), fatto del tutto inedito nella storia dell’economia italiana. Ciò nonostante, sembra che il dibattito su questi temi si concentri quasi esclusivamente sulle misure di contrasto al fenomeno, in assenza di una preventiva individuazione delle cause.

Il fenomeno viene imputato da molti commentatori a effetti di labour hoarding, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare, con i conseguenti costi (monetari e di tempo) connessi alla specializzazione dei nuovi assunti. In tal senso, la disoccupazione giovanile viene imputata alla bassa dotazione di “capitale umano specifico”, derivante dalla bassa dotazione (o dalla totale assenza) di competenze associate al learning by doing.

Si tratta di un’interpretazione per alcuni aspetti discutibile, almeno se riferita all’Italia.

1) L’ipotesi del labour hoarding vale sotto la condizione che le aspettative delle imprese siano ottimistiche, ovvero che si attendano un aumento della domanda già nel breve-medio termine. Diversamente, non si spiegherebbe per quali ragioni esse razionalmente decidano di non licenziare, mantenendo manodopera “in eccesso” rispetto ai volumi di produzione da realizzare e, dunque, sostenendo costi senza ottenere benefici di breve periodo. Data questa condizione, l’ipotesi del labour hoarding sembra essere in evidente contraddizione con la percezione che le imprese italiane hanno in merito alla durata della crisi. Si stima, a riguardo, che oltre il 50% degli imprenditori italiani ritiene che la recessione in atto durerà ancora almeno due anni (link), ed è una stima che può considerarsi prudenziale.

2) Fatte salve le dovute eccezioni, il sistema produttivo italiano è composto da imprese di piccole dimensioni e poco innovative. Anche in questo caso, l’ipotesi del labour hoarding – con riferimento all’Italia – sembra poco convincente. Se la tecnologia utilizzata, infatti, non richiede lunghi e costosi processi di apprendimento, non si capisce per quale ragione le imprese non licenzino, potendo – nel far questo – ridurre i costi di produzione di breve periodo ed eventualmente assumere (con costi di formazione pressoché irrisori) nelle fasi espansive del ciclo.

Queste considerazioni inducono a ritenere che, almeno nel caso italiano (e, ancor più, nel caso del Mezzogiorno), la (relativa) tenuta dell’occupazione di lavoratori in età adulta dipende semmai da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono alla struttura familiare. In altri termini, il costo del licenziamento, in questi casi, è sia economico1 sia psicologico2, ed è indipendente dalla specializzazione degli occupati.

L’opinione dominante – schematizzando – fa propria la convinzione, apparentemente lapalissiana, secondo la quale sono gli individui più produttivi ad avere la più alta probabilità di essere assunti. Sul piano normativo, ciò implica mettere in campo politiche che rimuovano le barriere che ostacolano un’allocazione della forza-lavoro basata sul “merito”. E’ bene chiarire che si tratta di una tesi fallace da un duplice punto di vista. Innanzitutto, non è chiaro come possa essere quantificato il merito, e quale relazione si intenda istituire fra merito e produttività. Il “merito” ha natura qualitativa e, in quanto tale, può essere oggetto di misurazione esclusivamente in modo discrezionale, se non arbitrario. La produttività del lavoro (ammesso che anche questa sia misurabile, ovvero “isolabile” dalla produttività degli altri fattori produttivi) è il rapporto fra la quantità prodotta e le ore-lavoro impiegate. La differenza che passa fra produttività e merito è esattamente quella che passa fra lavorare molto e lavorare bene: con ogni evidenza, nulla assicura che lavorare molto implichi lavorare bene. In secondo luogo, questa tesi si fonda implicitamente sul presupposto secondo il quale la competizione nel mercato del lavoro avviene in un “vuoto istituzionale”, ovvero non risente di variabili che attengono all’ambiente sociale e familiare nel quale gli individui si formano.

In palese contraddizione con questa impostazione, si rileva sul piano empirico (link) che, dal 2000 al 2012, in tutti i Paesi dell’eurozona è notevolmente aumentato il numero di individui che si rivolge a conoscenti, amici, parenti nell’attività di ricerca di lavoro. Si osservi che il periodo considerato è caratterizzato da un notevole incremento delle diseguaglianze distributive. (link)3.

Questi due fenomeni inducono a ritenere che il peggioramento della distribuzione del reddito genera un potenziamento del ruolo delle “reti relazionali” nell’attività di job search, configurando una dinamica del mercato del lavoro nella quale le relazioni di potere e di gerarchia assumono sempre più rilievo, e sempre meno rilievo assumono le caratteristiche personali. Il che, peraltro, si associa – come ampiamente documentato sul piano empirico (link) – alla riduzione del grado di mobilità sociale: i figli delle famiglie con più alto reddito ottengono good jobs, a fronte del fatto che le famiglie con più basso reddito vedono i loro figli collocati in condizioni di disoccupazione, sottoccupazione, precarietà4.

A ciò si aggiunge il fatto che i giovani provenienti da famiglie con redditi elevati hanno un salario di riserva più alto rispetto a coloro che provengono da famiglie con basso reddito. Un elevato salario di riserva – derivante essenzialmente dai risparmi delle famiglie d’origine – consente di acquisire un più elevato potere contrattuale (in quanto consente di attendere più tempo per la stipula del contratto di lavoro) e, conseguentemente, consente anche di attendere più tempo per accettare un’offerta di posto di lavoro In tal senso, l’aumento delle diseguaglianze distributive rende il mercato del lavoro sempre più duale.

E’ evidente che un meccanismo di allocazione della forza-lavoro basato su reti relazionali ha effetti di segno negativo sulla dinamica della produttività del lavoro. Ciò a ragione del fatto che gli individui provenienti da famiglie con redditi elevati “spiazzano” gli individui provenienti da famiglie con più basso reddito, non perché più produttivi, ma semplicemente perché le famiglie d’origine hanno redditi più alti e maggiori e migliori “reti relazionali”. In tal senso – e contro la visione dominante – la disoccupazione giovanile non ha nulla a che vedere con il fatto che i lavoratori adulti sono iperprotetti. E, contro la visione dominante, è semmai il peggioramento della distribuzione del reddito a contribuire a ridurre la produttività del lavoro.

Non è un fenomeno nuovo quello della trasmissione ereditaria della povertà. L’“ideologia del “merito” che ha guidato le politiche economiche degli ultimi decenni non aiuta a risolvere il problema (e, di fatto, non lo ha minimamente attenuato), dal momento che il fenomeno si auto-alimenta soprattutto in contesti di crescente polarizzazione dei redditi.

di Guglielmo Forges Davanzati*

* Università del Salento

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Note
1 Per l’ovvia ragione che, in questo caso, il licenziamento comporta la riduzione di reddito della famiglia.
2 Per l’altrettanto ovvia ragione che è psicologicamente costoso licenziare un familiare.
3 Come certificato dall’OCSE, la diseguaglianza distributiva è notevolmente aumentata a partire dagli anni Ottanta al’interno di tutti i Paesi industrializzati. Al 2012, l’indice di Gini, riferito all’Italia, oscilla intorno allo 0,36 a fronte di una media OCSE circa uguale a 0,30.
4 Come riconosciuto da Mario Draghi: “il successo professionale di un giovane sembra dipendere più dal luogo di nascita e dalle caratteristiche dei genitori che dalle caratteristiche personali come il titolo di studio” (link). Sul tema si vedano S.Bowels and H.Gintis, The inheritance of inequality, “Journal of Economic Perspective”, (16): 3-30 e, per il caso italiano, A. Rosalia, Relazioni intergenerazionali: il ruolo della famiglia, CEPR 2011.