News

Il nesso che lega Telecom, difesa della Costituzione e ricostruzione della sinistra

0
0

La questione Telecom chiama in causa tre altre questioni fondamentali: le trasformazioni economiche strutturali degli ultimi quindici anni, la difesa della Costituzione e la ricostruzione della sinistra in Italia.Il problema nel caso Telecom non è soltanto la perdita dell’italianità, ma soprattutto la sistematica distruzione operata ai danni di uno dei fiori all’occhiello dell’industria italiana. Il lascito più importante dello Stato-imprenditore, che condusse l’Italia a posizioni di leadership mondiale nel settore strategico delle telecomunicazioni.

Il vero responsabile del disastro attuale si chiama privatizzazione, eseguita dal governo di centro-sinistra Prodi I (1997) e successivamente avallata anche dal governo D’Alema (Opa di Colaninno 1999). I nomi più prestigiosi del capitalismo italiano si sono passati il bastone del comando in Telecom: Agnelli, Colaninno (oggi ancora “capitano coraggioso” in Alitalia), Tronchetti-Provera.

ùI privati che acquistarono, però, lo fecero con una forte leva di debito (leverage buyout) e controllando la società con investimenti minimi, attraverso il sistema delle scatole cinesi. In questo modo, i privati hanno finito per saccheggiare risorse, anziché investirne per innovare. Tra 1999 e 2007, ben 24 miliardi di euro sono stati drenati dalle tasche di Telecom verso operazioni sbagliate o dubbie. Vanno poi considerate operazioni quantomeno opache come la svendita del patrimonio immobiliare di Telecom a Pirelli Real Estate, società immobiliare di Tronchetti-Provera, durante la cui presidenza ci fu anche lo scandalo delle intercettazioni telefoniche. In sostanza, Telecom si è trascinata dietro un debito enorme (ora a 28,8 miliardi di euro) che ne ha appesantito le attività e che oggi, in assenza di denaro fresco, sta pregiudicando la possibilità di collocare sul mercato azioni e obbligazioni, ormai prossime al livello “spazzatura”.

Telecom e altri casi, come quello dell’Ilva, dimostrano il fallimento del mercato autoregolato e dell’impresa privata in genere, ancora più evidente nella fase attuale di crisi. Le privatizzazioni sono il prodotto della liberalizzazione dei mercati finanziari degli anni’90-2000, che ha aperto la possibilità ad operazioni disinvolte come il leverage buyout, con lo scopo di offrire nuove occasioni di facili e alti profitti. Le privatizzazioni sono state giustificate con il fondamentalismo ideologico neoliberista, secondo cui il mercato e i privati sono sempre preferibili al pubblico. Un non senso, anche dal punto di vista liberista, in caso di monopoli naturali dove non è possibile la concorrenza, come nelle infrastrutture e nelle reti. Invece e contrariamente ai luoghi comuni, la gestione statale ha storicamente garantito risultati migliori rispetto ai privati. Come rileva Mucchetti in “Licenziare i padroni?”, tra 1986 e 2001 (anche se la privatizzazione è del 1997), Telecom Italia aumentò il suo valore di borsa di 94mila miliardi di lire, Pirelli lo ridusse per l’ammontare di 3.798 miliardi, Olivetti per 14mila, Fiat per 27mila.

Che fare, oggi, dopo il saccheggio? Alcuni punti concreti:

a) La rete infrastrutturale Tlc va ricollocata completamente sotto controllo pubblico; la Cassa depositi e prestiti ha le risorse per farlo e la golden share consente al governo l’ultima parola.

b) Bisogna ottenere garanzie sul mantenimento degli attuali livelli occupazioni e sugli investimenti tecnologici, in particolare sulla nuova fibra ottica.

c) Bisogna internalizzare quanto dato in outsourcing con conseguenti perdita di valore aggiunto e qualità del servizio ai clienti, e aumento della precarizzazione.

Gli 860 milioni che Telefonica sborserà andranno tutti nelle tasche di Mediobanca, Generali e Intesa (per la gioia di azionisti e manager superpagati), allo scopo di aumentare la sua quota dentro Telco che, con solo il 22,45% delle azioni, controlla la società. Nulla andrà agli investimenti. Fra l’altro Telefonica sconta un forte indebitamento (49,8 miliardi di euro) e non è certo quella messa meglio per fare la parte della salvatrice.

Solo la ripresa dell’intervento pubblico in economia e una vera politica di programmazione pubblica può risolvere la situazione di Telecom ed evitare che prosegua l’erosione della base industriale italiana. La Costituzione all’articolo 42 prevede limiti alla proprietà privata in base alla funzione sociale e soprattutto all’articolo 43 prevede la possibilità di trasferire la proprietà di aziende private allo Stato in caso di monopolio e di preminente interesse generale. Questo può essere il caso di Ilva, e lo è sicuramente per quanto riguarda l’infrastruttura Tlc. L’infrastruttura delle telecomunicazioni è palesemente un monopolio naturale ed è di rilevanza strategica non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista della sicurezza dello Stato e militare. La Costituzione non va cambiata. Ne va ristabilito il senso originario e soprattutto va applicata.

La revisione della Costituzione è già in corso, a causa della modifica del Titolo V e soprattutto dell’introduzione del pareggio di bilancio. L’introduzione, prospettata dai saggi nominati da Napolitano, del premierato forte (il capo del governo può nominare e revocare i ministri ed è più difficile sfiduciarlo) e l’introduzione del corsia preferenziale e del “voto a data fissa” per i decreti governativi segnano un altro passo verso la trasformazione dell’Italia da “sistema parlamentare” a “sistema governamentale”. Ne vanno tratte le debite conseguenze e va detto chiaramente che le trasformazioni istituzionali sono funzionali alle trasformazioni economico-sociali, cioè alle controriforme del mercato del lavoro, delle pensioni e del welfare, e alle privatizzazioni. Del resto, nonostante gli esisti disastrosi delle privatizzazioni, oggi più che mai evidenti con il caso Telecom, proprio il governo delle “larghe intese” Pd-Pdl ha programmato una nuova tornata di privatizzazioni, dall’Eni a Finmeccanica, alle utilities municipalizzate. La situazione è tale per cui non è possibile articolare una efficace difesa della Costituzione se non collegandola alla questione economica e sociale concreta e soprattutto alla messa in discussione dell’architettura dell’Europa e dell’euro. Infatti, il Trattato di stabilità europeo, oltre che introdurre il pareggio di bilancio, è lo strumento per far apparire inevitabili le controriforme e le stesse privatizzazioni.

È del tutto evidente che c’è bisogno della sinistra per portare avanti questo approccio, e che, nello stesso tempo, solo con questo approccio si può ricostruire e unire la sinistra in Italia. Un compattamento, un fronte della sinistra non può realizzarsi e avere possibilità di attrarre consensi sulla base di esigenze puramente elettorali o rimanendo in una posizione di difesa statica. Può, viceversa, realizzarsi solamente sulla base di discriminanti chiare in rapporto alle questioni decisive: le controriforme istituzionali ed economiche, le privatizzazioni, l’architettura dell’Europa e dell’euro. Discriminanti che rappresentino le fondamenta di una linea programmatica e strategica, che non solo si opponga ai processi degenerativi in atto ma che sia portatrice di una proposta chiara e complessiva di risposta alla crisi economica, politica e morale in cui versa il nostro Paese.

di Domenico Moro