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Modifica al codice di comportamento dei Pubblici dipendenti

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Modifica al codice di comportamento dei Pubblici dipendenti
I dipendenti pubblici hanno ricevuto l’ennesimo regalo, dal governo dei padroni: dovranno fare attenzione a ciò che scrivono o condividono sui social media, perché rischiano salate sanzioni disciplinari.

Con l’approvazione, in Consiglio dei Ministri, della revisione del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, si sta proseguendo sulla strada, avviata anni fa, di porre i lavoratori pubblici sotto “osservazione vigliata”. Ammonendoli che è vietato mettere in imbarazzo il datore di lavoro – cioè lo Stato – sui social network.
Il Codice di comportamento riguarda proprio le regole di condotta dettate per l’uso delle piattaforme social, sulle quali il dipendente – si legge – è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della Pa in generale.
Avrà rilievo disciplinare, dunque, ogni presa di posizione fuori dalle righe o giudicata inopportuna per il buon nome dell’ufficio pubblico.

Servirà fare attenzione anche a ciò che altri utenti postano sui propri profili: Il dipendente utilizza gli account dei social media di cui è titolare in modo che le opinioni ivi espresse e i contenuti ivi pubblicati, propri o di terzi, non siano in alcun modo attribuibili all’amministrazione di appartenenza o possano, in alcun modo, lederne il prestigio.
Inoltre, è meglio non mettere online alcun riferimento al proprio posto di lavoro nella Pa: se dagli account social sono ricavabili o espressamente indicate le qualifiche professionali o di appartenenza dei dipendenti, questo costituisce elemento valutabile ai fini di un’eventuale sanzione disciplinare.
Fin qui le interdizioni e le censure, preventive, di uno “stato securitario” che fa la voce grossa e si predispone a “bastonare” e mettere il bavaglio ai lavoratori che, inevitabilmente, lo criticheranno.
Infatti, con l’avvento della “nuova era fascisteggiante” stanno aumentando, a dismisura, i cittadini e lavoratori che attaccheranno le amministrazioni, centrali e periferiche.
Dunque, lo stato padrone si dispone a randellarci a dovere. E questo lo farà, in particolare, con chi non si schiera alle direttive delle amministrazioni d’appartenenza. Mentre sarà uno stato magnanimo con coloro che, ma quelli non sono mai mancati, sono abituati a leccar tacendo.
Ma cosa dicono, invece, le leggi in materia, la Costituzione Repubblicana nata dalla Resistenza anti-fascista, nonché lo Statuto dei Lavoratori?
L’articolo 21 della Carta:
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria [cfr. art.”
La riservatezza e la dignità trovano infatti tutela nei primi articoli dello Statuto dei lavoratori, tra i quali spiccano l’art. 1 sulla libertà di opinione e l’art. 8 sul divieto posto in capo al datore di lavoro di effettuare indagini sulle opinioni, anteriormente all’assunzione ovvero in costanza di rapporto.

Da un lato quindi viene sancita la libertà, rectius il diritto, per il prestatore di lavoro di manifestare il proprio pensiero, purché nel rispetto della Costituzione e della disciplina dello Statuto; dall’altro viene preclusa alla parte datoriale la possibilità di effettuare indagini su opinioni politiche, religiose, sindacali o comunque su aspetti estranei all’attitudine professionale.
La libertà di opinione di cui all’art. 1 della legge 300/70 riafferma il diritto fondamentale della persona, di rango costituzionale, di manifestare il proprio pensiero (art. 21 Cost.), garantendone l’esercizio anche nella sede di lavoro.
La rimozione di qualsiasi ostacolo alla manifestazione del pensiero, come estrinsecazione della personalità umana, anche sul luogo di lavoro, senza limitazioni originate da credi politici, religiosi o sindacali, trova piena attuazione nel successivo art. 14 dello Statuto, che introduce il diritto di costituire associazioni sindacali nei luoghi di lavoro e di aderirvi.

Al lavoratore è dunque riconosciuto il pieno diritto di manifestare il proprio pensiero nonché, nell’ambito strettamente sindacale, di promuovere, aderire, organizzare e partecipare attivamente alle relative attività. Alla libertà di manifestazione del pensiero si accompagna, quale diritto eguale e contrario, quella di non manifestazione dello stesso, quindi il diritto alla riservatezza circa le proprie convinzioni ideologiche. Non solo è dunque precluso al datore di lavoro di pretendere la divulgazione di queste ultime da parte del personale dipendente, ma una precisa disposizione, l’art. 8 dello Statuto, vieta ogni sorta di indagine a ciò volta.

L’art. 8 sancisce infatti il divieto per il datore di lavoro di effettuare indagini sulle opinioni, direttamente o a mezzo di terzi, tanto ai fini dell’assunzione quanto nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro. Tale divieto non abbraccia solo le opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, ma altresì qualsiasi aspetto non rilevante ai fini della valutazione dell’attitudine professionale dello stesso.

In senso contrario, si sta diffondendo un orientamento più restrittivo, secondo il quale, quando i profili utilizzati non siano pubblicamente visibili a qualunque utente del social media, quindi le affermazioni siano destinate ad una cerchia ‘ristretta’ di utenti, il commento oggetto di post deve essere considerato come un esercizio della libertà di espressione, al pari di una conversazione privata.
Secondo questo orientamento, un profilo social configurerebbe un luogo di discussione privato, pertanto soggetto alle tutele costituzionali di libertà e segretezza della corrispondenza.
In tali pronunce è stato dunque escluso il diritto ad avvalersi di simili prove onde legittimare un procedimento disciplinare a carico del prestatore di lavoro o, quantomeno, è stata ridimensionata la portata offensiva di tali commenti, con un sindacato sulla proporzionalità delle sanzioni inflitte (rif. ex multis Cass. 21695/2018; Cass. 2449/17).

Tradotto, che provino a sanzionarci e a maltrattarci, a metterci il bavaglio, noi che manifestiamo spirito critico e che non abbiamo voglia di inchinarci alle loro direttive securitarie, avranno pane per i loro denti.

Maurizio Maccagnano, sindacalista dissidente

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