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Non la rivoluzione, ma forse qualcosa di rivoluzionario…

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Non so se in questa campagna Bersani, Vendola o addirittura Ingroia abbiano detto qualcosa di sinistra. Mi sono reso conto, però, anche se tardi, che Grillo ha fatto qualcosa di rivoluzionario. Ognuno ha il suo dio delle giustificazioni, in ogni caso il 2,2% di Ingroia la dice lunga sulla stagione della politica fatta dai magistrati, e la dice lunga anche su quel che resta di Rifondazione Comunista e sulla sua attuale capacità di aggregazione dei movimenti. Con tutto il rispetto di quei magistrati che sono in perpetua lotta contro la metastasi del sistema italiano, non basterà il loro lavoro per venirne fuori. E non solo per i limiti del legalismo democratico, ma per i limiti intrinseci del metodo: una classe dirigente disastrosa non si rinnova con la moltiplicazione delle perquisizioni. Da tangentopoli si gioca a guardie e ladri senza che il tasso di corruzione e di collusione con la criminalità organizzata sia mai davvero declinato.

Grillo ha fatto qualcosa di rivoluzionario. E lo ha fatto senza bisogno di spaccare le vetrine, ma facendo diventare il Movimento 5 Stelle il primo partito italiano. Vendola, d’un tratto, è sembrato ieri sera rendersene conto, che Grillo era, in fondo, dalla sua parte. È stato come rompere un tabù: lui è dei nostri, fa le battaglie che condividiamo, è di sinistra in fondo. Rottura di tabù fuori tempo massimo?

Ma il problema non è solo di Vendola, o dei rintronatissimi dirigenti del PD, ma è pure mio, di molti amici, di molti compagni, che hanno ritenuto Grillo un fenomeno irrilevante dal punto di vista politico, o in ogni caso un fenomeno puramente sintomatico. (O ancora, un esempio di controrivoluzione, come lo vedono i Wu Ming. Ma sul loro giudizio tornerò alla fine.)

E invece Grillo, e i suoi, andavano verso il bersaglio (qualche buon bersaglio). E facevano segno, non solo sintomo.

Anch’io ho pagato il pegno alla mia pigrizia mentale, e al mio conformismo. Qualche anno fa avevo assistito alla registrazione video di uno spettacolo di Grillo. Non era ancora nato il partito. E i suoi popolatissimi show erano quelli di un comico, che fa ridere e riflettere toccando grandi questioni d’attualità. Mi aveva colpito un passaggio, in cui mostrava, supportato da statistiche, come i ceti popolari finissero sotto i ferri del chirurgo molto di più dei ceti medio-alti. “Notevole, – pensai all’epoca – di tutte le personalità di sinistra sfilate in questi anni nei talk show televisivi, mai che ne abbia sentita una sollevare un tema così sacrosanto”. Ne avevo parlato con un amico, che votava Rifondazione come me, e lui tirò fuori l’inoppugnabile argomento del populismo di Grillo, la sterilità del “Vaffa”, ecc. ecc. All’epoca era forse comprensibile limitarsi a tale analisi. Dopo la grande crisi del 2008, liquidare realtà politiche con il termine populista, è diventato però un po’ più problematico, soprattutto a fronte di terapie inesistenti nei confronti della cosiddetta “rabbia” dei ceti popolari e medi. In alcuni paesi europei, il populismo è ormai lo strato più simpatico di movimenti che hanno nuclei ideologici inequivocabilmente xenofobi e reazionari, quando non apertamente razzisti. L’unico nostro vantaggio è stato quello di aver già avuto al governo, e ben piazzata nelle istituzioni a succhiare quanto può, la Lega. E qui bisogna ringraziare Berlusconi. Oggi, poi, da noi, seppure convertiti, e doppiamente ex, i fascisti non hanno riscosso alcun successo.

C’è, invece, questo Grillo. E il termine ancora più spregiativo di “grillino”, che anche nella bocca di veraci compagni della sinistra radicale è sinonimo di minus habens. Questo Grillo, però, grazie ai suoi grillini, è divenuto il più grande partito d’Italia, lasciando al PD e al PDL i resti di un poco glorioso bipolarismo. Anche il tecnocrate, che pure piaceva parecchio al PD, è andato a fondo, ma serenamente e con intima soddisfazione – dice lui. Stranamente Bersani, e Vendola sua spalla, insieme non sono stati più convincenti dell’eterno Berlusconi: arzillo vecchietto sparapalle, che sembra ormai uscito da qualche spettacolo tipo la Corrida o Paperissima. Lui che appena sale sul palco, fa una scoreggia con l’ascella, dà un pizzicotto sul culo alla presentatrice, spiega che la mafia ha creato milioni di posti di lavoro, e si incamera un po’ di migliaia di voti, risalendo baratri di svantaggi elettorali.

Invece questo Grillo, di cui personalmente mi ero informato pochissimo, finendo per lasciarlo nel limbo del puro “sentito-dire” o “letto sul giornale”. (Alla mia età!) E mi è sfuggito che questo tizio sta facendo, senza bisogno di inneggiare all’insurrezione mondiale anticapitalista in passamontagna, qualche cosa di rivoluzionario. Ha messo nel suo programma i temi tabù della decrescita. E con questi temi nel programma è divenuto il primo partito italiano, per dire. Ha battuto indefesso il chiodo sulla democrazia partecipativa, e con questo tema da gruppuscolo extraparlamentare è divenuto il primo partito italiano, ad esempio. Ha impedito l’accesso sotto il palco ai giornalisti italiani, e non gli ho ancora spedito un mazzo di fiori. Ha fatto una campagna elettorale senza accasciarsi sui divanetti dei talk show televisivi, che sono più sacri delle grotte di Lourdes, dopotutto. Sembra che abbia mobilitato i giovani, quei giovani di cui si diceva, appunto, che sono rincoglioniti da Facebook, qualunquisti, apatici, fatalisti, disperati, fascistoidi. Giovani che hanno persino ottenuto seggi all’Assemblea regionale siciliana. Giovani che scorazzano d’ora in poi in mezzo ai notabili, e proprio in Sicilia, una regione che più di altre può vantarsi di annichilire sistematicamente le risorse straordinarie, in generosità e intelligenza, dei propri ventenni e trentenni.

Proprio in questo, magari, c’è qualcosa di rivoluzionario. Abbiamo, alla fine, quasi tentato di convincerci che chi governa non è in fondo peggio di chi è governato. Ma così non è. (L’esperienza quotidiana lo dimostra, e non solo in politica, ma anche nelle aziende e nelle istituzioni.) L’ingovernabilità non è frutto dei grillini, ma è la conseguenza di una classe dirigente che ha fallito l’ultimo suo obiettivo, che non è certo quello di governare per il bene comune, ma di produrre almeno consenso per governare. Sì, la nostra classe politica è fallimentare, ma non perché abbia sbagliato a comunicare, ma perché ormai non sa fare più neppure quello: essere una decente agenzia di comunicazione. Pur avendo tutti i soldi e i mass-media, che dovrebbero permetterglielo.

Grillo ha fatto qualcosa di rivoluzionario, anche se ciò non equivale certo a fare la rivoluzione. Ma penso che la vicenda sua e del Movimento 5 Stelle abbia fatto esplodere svariate contraddizioni, che riguardano anche la sinistra radicale. Scrivevo all’inizio che si tratta di un fenomeno che non funge solo da sintomo da decifrare, ma fornisce già esso stesso qualche riposta, chiarimento, indicazione concreta. Di queste indicazioni ne voglio rilevare qualcheduna.

Partiamo dalla nozione di carisma. A sinistra, e per ottimi motivi storici e sociologici, il carisma in politica fa paura. Ma non possiamo sognarci di rispondere collettivamente ad una situazione di crisi estrema, facendo l’elogio della grigia responsabilità, che tanto piace ai benpensanti del PD. Grigia responsabilità, che si risolve poi in brillante sacrificio, per i ceti che se lo devono, più di altri, accollare. Il carisma è sempre pericoloso, in politica, sia che si parli di politica diretta, orizzontale, che di politica istituzionale, e rappresentativa. Ma l’assenza totale di carisma non è neppure una ricetta che si può propinare sempre e comunque, speranzosi nelle sue miracolose virtù. Discorso simile va fatto per le emozioni, o i sentimenti. Qualche indicazione il laboratorio delle destre estreme in Europa dovrebbe alla fine averlo dato. L’emozione è un materiale ineliminabile della politica: va lavorato, non semplicemente neutralizzato. Soprattutto non si può costruire qualcosa di rivoluzionario prescindendo dalla sofferenza e dalla gioia sociale. Ogni tentativo di muovere le persone, coinvolgerle, mobilitarle, che abbia il terrore di muovere anche le emozioni, è condannato a trasformarsi in elitaria, sterile, argomentazione intellettuale.

Lo ripeto: Grillo ha mobilitato milioni di italiani intorno ai temi tabù della decrescita. Di per sé ciò non significa ancora nulla in termini di obiettivi raggiunti. Ma mostra che esistono tematiche antisistema in grado non solo di mobilitare una maggioranza di persone, ma anche di dare loro senso e prospettiva etica. Fino ad ora, la litania delle sinistre istituzionali è stata: siamo timidi e remissivi, perché altrimenti nessuno ci segue, e se nessuno ci segue nulla è possibile. La litania di molta sinistra radicale è stata: siccome non siamo timidi e remissivi, nessuno ci segue, quindi facciamo tutto tra noi, nel nostro gergo, con i nostri segni distintivi, che ci permettono inequivocabili identificazioni. Magari, adesso, qualche dubbio è stato instillato, almeno sul piano del metodo.

Un’ultima osservazione sulla democrazia partecipativa. Credo che si tocchi qui uno degli ideali più alti dell’umanità. Ci vuole una grande maturità, una grande forza, una grande costanza, per partecipare attivamente e fino in fondo al gioco della democrazia. In termini di energie mentali, è mille volte più facile delegare, e accontentarsi del compromesso ormai sempre meno dignitoso della democrazia rappresentativa. Ancora meglio, è affidarsi poi a un’autorità, che sistemi una volta per tutte la nebulosa delle opinioni. Quindi è ben poco perspicace colui che ad ogni occasione celebrerà i limiti, gli errori, le fragilità della democrazia partecipativa. Nessuno può immaginarsi, lucidamente, che si tratti di una pratica facilmente generalizzabile. Ma d’altra parte oggi essa emerge quasi come un’opzione obbligata, necessaria, epocale di fronte all’inanità della classe dirigente e alle sfide del mondo presente. Non sono certo Grillo e il suo partito ad aver inventato la democrazia diretta, ma essi stanno contribuendo a diffonderne la moda. Forse, davvero, c’è qualcosa di rivoluzionario in tutto questo.

(Io non ho votato Grillo, né so se lo voterò mai in futuro, ma di certo gli dedicherò ora una grande attenzione. Certo, non è che non veda i tanti limiti della sua retorica, o del suo programma, e soprattutto il limite più grande: il fatto di essere un movimento che si vuole partecipativo, ma che è guidato da una persona sola. Questo rende fin d’ora le grandi conquiste numeriche del suo partito fragilissime, ma non vane per principio. Sarà il confronto con la realtà parlamentare a sancire quanto resterà del potenziale critico del movimento. Nell’articolo che ho citato, i Wu Ming precisano: un movimento guidato da due “ricchi sessantenni”. E aggiungono che il Movimento 5 Stelle non solo non è un movimento rivoluzionario, ma addirittura è una diversione. Sembrerebbe, insomma, una sorta di provvidenziale fatalità, che sia sbucato Grillo a imbrigliare forze che altrove stanno esprimendosi in modo autenticamente rivoluzionario (Gli indignados, Occupy, ecc.). Sarebbe interessante seguire nel dettaglio le argomentazioni dei Wu Ming, ma ne verrebbe fuori un’altra riflessione, quella sui professori della rivoluzione. È inevitabile che anche la rivoluzione abbia bisogno di certificatori e certificazioni, ma questo non sempre giova alla sua salute, anche se sembra giovare alla sua purezza. Certo, è davvero difficile pensare che Grillo stia facendo la rivoluzione anticapitalista, ma è abbastanza singolare non cogliere gli elementi di critica radicale, gli elementi oggettivamente progressisti in molte pratiche e parole d’ordine che ha contribuito a innescare e soprattutto a diffondere con un certo successo. Si può allora augurare ai nuovi “impegnati” – i militanti del Movimento – di emanciparsi sempre di più dal guru e di acquisire nel frattempo consapevolezza e strumenti nella battaglia politica concreta.)

di Andrea Inglese