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Recuperare la sovranità nazionale. Per salvare l’Italia dall’eurodisastro

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A metà degli anni Settanta l’imperialismo attraversava una crisi profonda, dovendo fronteggiare al tempo stesso la pressione delle classi popolari nel cuore stesso della Triade dei paesi capitalistici avanzati e la lotta per l’emancipazione delle nazioni del Sud del mondo, di cui rimane emblematica la vittoria del Vietnam sugli Stati Uniti.

Nel breve volgere di qualche anno, a partire dal cuore dall’Anglo-America, cuore del sistema imperialistico, vengono adottate una serie di politiche, definite neoliberiste, che mirano a lanciare una controrivoluzione globale. La libera circolazione dei capitali, che attraversando le frontiere possono cercare di soddisfare la loro insaziabile sete di miglior remunerazione possibile, e la deregolazione dell’economia, con la fine dell’intervento pubblico e il taglio del welfare, mirano a recuperare il terreno concesso al proletariato e alle classi popolari nel corso del decennio passato e mettono nel mirino le stesse conquiste democratiche. Sull’altro fronte della lotta di classe internazionale si mira a legare i paesi del Sud del mondo al cappio dell’indebitamento strutturale per svuotarne la sovranità a colpi di ricette “consigliate” dai propri tentacoli: FMI e Banca mondiale.

Dagli anni ’80 in poi l’adozione di quell’insieme di politiche delinea quello che viene comunemente chiamato “Washington Consensus”. Il Washington Consensus è il volto che assume il rilancio del tentativo di egemonia statunitense dal punto di maggior crisi in cui si era cacciato a seguito della sonora disfatta in Vietnam, sconfitta alla quale si erano affiancati altri eventi inquietanti per gli Usa: le rivoluzioni dilaganti in tutta l’Africa australe; la crescente capacità di proiezione della propria forza militare da parte dell’Unione Sovietica (di cui era prova proprio l’impegno a sostegno della lotta di liberazione angolana); lo stesso pericolo che diversi paesi dell’Occidente europeo sfuggissero al pieno controllo dell’imperialismo americano a causa dell’evoluzione dei rapporti di forza nella loro politica interna (è il caso del Portogallo, della Francia e della stessa Italia).

Offrendo altissimi tassi d’interesse e ricorrendo massicciamente all’indebitamento, potendo contare sul fatto di possedere la moneta di scambio dei traffici internazionali, gli Usa raggranellano i capitali necessari, dando impulso alla massiccia esplosione del processo di finanziarizzazione capitalistico, e con tali risorse cercano di dare la “spallata” all’URSS.

La crisi statunitense viene momentaneamente superata grazie al disarmo unilaterale voluto da Gorbaciov e dalla dissoluzione dell’antemurale sovietico. Per due decenni il mondo balla al ritmo del neoliberismo anglo-americano, contrabbandato e comunemente accettato anche dalle socialdemocrazie come l’unica musica possibile.

Questa storia è fin troppo nota. Nota dovrebbe ormai essere anche la cronaca che parla del fallimento di quel modello che avviene sotto i nostri occhi. L’assunzione (aperta o subdola) dei dogmi del pensiero unico rende però forse non del tutto banale chiarire alcuni aspetti della crisi sistemica che stiamo attraversando.

Il liberismo e il suo cavallo di Troia

Anche l’Italia ha adottato, nell’entusiasmo dei liquidatori della sinistra, il mix micidiale delle ricette neoliberiste: deregulation; indipendenza della banca centrale (con conseguente rialzo dei tassi d’interessi e di esplosione, per questa via, del debito pubblico); privatizzazioni e svendita del patrimonio pubblico; abbandono di qualsiasi idea di programmazione e di politica industriale in virtù del principio dellaissez-faire; riduzione del welfare; adozione di una politica fiscale non progressiva, che grava maggiormente sui ceti medio-bassi che sulle oligarchie e conseguente trasferimento di ricchezza dal monte salari alle rendite, in virtù della credenza della mano invisibile che successivamente avrebbe ridistribuito le ricchezze (come no…).

Sono queste le politiche seguite dai governi italiani negli ultimi 20 anni (1992-2013) che siano stati tecnici, apertamente di destra o di “centrosinistra”, con la sinistra a rimorchio.

Il fatto che spesso l’adozione di simili politiche sia stato giustificato con il vincolante bisogno di imprimere un’accelerazione al processo di integrazione europea e il fatto che, nel corso degli ultimi anni, le politiche di austerità siano state sostanzialmente imposte dalla Bce e da Bruxelles ha fatto sì che una quota crescente dell’opinione pubblica prendesse coscienza della natura della Unione europea. Ma il legame tra liberismo e processo di integrazione europeo non è stato pienamente compreso dall’opinione pubblica italiana, spesso nemmeno a sinistra.

La costruzione di questa Unione europea, dell’Europa di Maastricht, ha rappresentato, come ha sottolineato un noto esponente della sinistra transalpina1, il cavallo di Troia dentro al quale stava in agguato l’omologazione al Washington Consensus e alla sua filosofia liberista. La costruzione dell’Unione europea non ha rappresentato così quella peculiare casa a forte connotazione sociale distinta dai regimi liberali anglosassoni che i sogni terzaforzisti di alcuni esponenti politici avevano vagheggiato, dai trattati di Roma (1957) in avanti, ma ha implicato il suo contrario: l’adozione del modello neoliberista anglosassone e l’americanizzazione delle nostre società. Con conseguente svuotamento delle promesse progressive presenti nella nostra Costituzione e riduzione della democrazia al collasso. All’interno di questo processo, è sempre più evidente il ruolo svolto dal grande capitale monopolistico tedesco, tendente a riconquistare un ruolo egemone in Europa trasformando i suoi partner in semicolonie. Dallo SME (Sistema Monetario Europeo) alla moneta unica di fatto gli altri paesi (dalla Francia all’Italia) sono progressivamente entrati nell’orbita economica-commerciale tedesca agganciando le loro valute al marco.

Il processo di costruzione di un’Europa unita, che i suoi cantori declamavano necessario per lasciarsi alle spalle gli egoismi degli Stati nazionali, archiviati frettolosamente come arcaici, e costruire insieme un roseo avvenire di pace e prosperità continentale, ha di fatto scatenato proprio i demoni che si intendeva esorcizzare. Dimenticando che il mondo è composto da comunità di popoli e dando per decrepita la sovranità le sinistre (convertite o smarrite) hanno gettato l’arma di cui disponevano i popoli per resistere all’imperialismo. Quanto alla pace, si è dimenticato facilmente come essa non sia stata regalata all’Europa dal processo di integrazione ma dall’equilibrio del terrore tra due superpotenze termonucleari che hanno ridotto il nostro subcontinente ai margini della scena. Caduto il muro si sono contati i primi morti nella tragedia jugoslava, frettolosamente rimossa dalla memoria da parte degli spacciatori dei premi Nobel per la pace. Della prosperità non resta nemmeno la prospettiva.

Si fa presto a dire sinistra…

Per fare accettare questa ondata reazionaria e neocoloniale si è fatto e si continua a fare vasto sfoggio di nobili ideali: gli Stati Uniti d’Europa, il sogno di Spinelli, etc…

Gli ideali di una casa comune europea vengono così impunemente prostituiti. Non so che cosa potrebbe mai pensare Spinelli degli attuali esiti del processo di integrazione europeo, ma so che il suo sogno si è trasformato in un incubo per gli italiani di oggi. L’idea di costruire gli Stati Uniti d’Europa, del resto, non teneva nel debito conto che le nazioni europee avevano alle spalle secoli di costruzione della propria identità, che i popoli europei hanno lingue differenti, che gli stati europei, dalla Germania, alla Francia, all’Italia, fino alla piccola Olanda, sono dotati di una sorta di “personalità storica” che fa sì che essi non possano in alcun caso essere paragonati al North Dakota, all’Oregon o al Kentucky. Il processo di integrazione europeo ha aggiunto a tali palesi sottovalutazioni anche la negazione delle diversità economiche e la cancellazione della ineludibile realtà dello stato nazionale come ambito dell’esercizio della sovranità e della democrazia. Non so come la prenderebbe Spinelli, so dove lo stiamo prendendo noi. Come sosteneva in tempi non sospetti Didier Motchane, gli Stati Uniti d’Europa finiscono per essere l’Europa degli Stati Uniti.

Disgraziatamente vi è ancora ampia parte della così detta “sinistra” che, pure nel disastroso contesto attuale, continua a crogiolarsi nella pia illusione di poter tenere questa Europa e la sua moneta unica, frutto del neoliberismo, ma di avviare politiche economiche anticicliche, o comunque non neoliberiste. Così, ad esempio, Fassina si premura a contrapporre agli attuali governi europei a guida conservatrice l’esempio, non proprio luminoso, di Jacques Delors2, cioè del socialista francese cui va il merito di aver mandato in coma la sinistra transalpina schiacciando, in nome dell’europeismo, la socialdemocrazia di quel paese sui paradigmi neoliberisti. Oppure vi è chi, in Italia, più impegnato a elaborare espressione poetiche, anziché risolvere problemi, è pronto ad entrare nel carrozzone del partito socialista europeo in pieno coma da sbornia liberal-americanista. Ma, evidentemente, si fa presto a dire sinistra.

In Italia il centrosinistra ha fatto propria la bandiera dell’integrazione in questa Europa sostenendo che l’integrazione ci avrebbe trasformato in un paese “normale”. Nel linguaggio comune “destra europea” e “sinistra europea” sono divenute etichette con cui presentare prodotti politici affidabili, moderni, pienamente integrati nell’universo dei valori (e degli interessi) liberali.

Con un consenso autistico tanto le forze della destra europea quanto le sinistre socialdemocratiche e simili hanno accettato e spesso utilizzato il processo di integrazione europeo come l’alibi e l’ariete per portare avanti l’assalto reazionario contro le conquiste democratiche e sociali realizzate nella seconda parte del Novecento all’ombra della sovranità nazionale. E’ stato così anche in Italia. Emblematica la parabola politica di Romano Prodi. Il fatto che anche le forze di sinistra lo abbiano appoggiato, lasciandosi sopraffare da elementi di giudizio legati alle particolarità assunte dalla politica italiana a causa dello sdoganamento della destra operato dal 1994 in poi e perdendo di vista le dinamiche fondamentali, ne spiega adesso in buona parte la crisi.

Il problema non è dunque, come poteva apparire a noi italiani, terrorizzati dalla sovversione mediatica della destra liberale (non populista!), una questione di alternativa di governo ma, più complessivamente, una questione di alternativa di politiche di governo. Non basta, quantomeno non più, avere dei governi che si dicono progressisti anziché conservatori ma occorre invertire a “U” la nostra pazza corsa allo sfascio promuovendo politiche che sulle questioni strategiche (politica estera, macroeconomia, politica sociale, difesa) siano assolutamente diverse da quelle seguite e proposte sino ad ora e tali da portarci fuori dalle secche e da dare agli italiani un futuro (che non sia l’emigrazione in Germania).

Corsa al ribasso

Perché il problema è nel manico. Nel manico di questa Unione europea e del suo frutto più maturo e avvelenato: l’euro.

Ad aprire gli occhi su tale problema è stato recentemente l’ex leader socialdemocratico tedesco Oskar Lafontaine, che ruppe con l’Spd all’epoca del cancellierato di Schröder e delle riforme antisociali da questi volute: il pacchetto Hartz e l’Agenda 2010. Lafontaine ha successivamente promosso la fusione tra la sinistra socialdemocratica e la Pds dell’ex DDR per dar vita alla Linke.

Recentemente ha preso chiaramente posizione contro l’euro. Le sue argomentazioni colgono il centro del bersaglio grosso, come ha rilevato anche l’economista francese Jacques Sapir.

Lafontaine, che pure era stato un entusiasta sostenitore della moneta unica e resta ancora favorevole al processo di integrazione europeo, rileva come non sia più possibile ingaggiare una battaglia contro le politiche d’austerità e il neoliberismo senza chiamare in causa l’attuale unione monetaria.

Tale unione, agganciando i PIGS e la Francia alla Germania con un cambio fisso, impedisce a questi paesi di difendersi dalla concorrenza tedesca svalutando.

Siccome la politica tedesca in questi ultimi decenni ha scientemente mirato ad abbassare il costo del lavoro con le riforme Hartz e con l’adozione dell’Agenda 2000 (all’epoca della cancelleria SPD-Verdi) in un contesto in cui la Bundesbank punta a tenere un tasso d’inflazione addirittura più basso del 2% previsto dagli accordi comunitari, si vengono a creare squilibri strutturali tra la Germania, in surplus, e i PIGS e la Francia, in deficit. Tali squilibri dovrebbero, teoricamente, essere sanzionati a livello europeo perché la normativa vigente esorta espressamente a conseguire politiche che evitino l’accumularsi di surplus o deficit strutturali, i quali potrebbero avere effetti deflagranti per l’intero processo d’integrazione. La Germania però non intende discostarsi di una virgola dalla strada mercantilista sin qui seguita, la quale in sostanza consiste nell’arricchirsi impoverendo i suoi vicini.

Il grande capitale monopolistico tedesco dopo l’annessione della DDR ha potuto contare su un enorme esercito industriale di riserva con cui esercitare una forte pressione contro i lavoratori tedeschi. Con il cancellierato di Schröder ha implementato le riforme di precarizzazione contrattuale e deflazione salariale. Così facendo ha fatto dumping salariale, innescando una gara al ribasso del tenore di vita delle classi lavoratrici in tutta l’Eurozona.

Gli altri partner europei, non potendo attuare svalutazione valutarie, sono stati indotti a ricorrere alle svalutazioni interne, cioè a rincorrere la Germania nella corsa al ribasso dei salari. Ciò può essere fatto, come in Germania, colpendo il potere contrattuale dei lavoratori grazie all’introduzione del precariato, dei mini-job, e allargando tramite disoccupazione e sottoccupazione l’esercito industriale di riserva. E’ la strada sulla quale si sono incamminati i governi che hanno accettato i diktat di Bruxelles. Ma è una strada senza uscita. Perché porta all’erosione del mercato interno e quindi a una caduta della domanda, ad un collasso del Pil e ad un avvitamento recessivo che peggiora la crisi anziché risolverla. Del resto non ha alcun senso pensare che, all’interno dello stesso ovile tutti possano fare i galli e nessuno debba fare la gallina, cioè non può funzionare una comunità nella quale tutti sono esportatori. Chi importerebbe, considerato che a livello internazionale nessuna vera “spugna” è all’orizzonte?

Trappola per topi

Ovviamente a queste politiche c’era e c’è un’alternativa. Ma la borghesia italiana ha preferito cogliere il destro per ottenere margini di guadagno dalla deflazione salariale e dal maggior potere contrattuale accumulato nei confronti dei lavoratori grazie alla precarizzazione massiccia.

Salvo poi lamentarsi delle conseguenze: il crollo della domanda interna che impalla l’economia nel gorgo della crisi e le difficoltà crescenti a causa della politica condotta dai concorrenti tedeschi.

In questo frangente la borghesia italiana rivela la sua intrinseca e storica fragilità. Una frazione di compradores è pronta a saltare sul carro tedesco, a rimorchio, per ritagliarsi una nicchia nel IV Reich. Altri settori, esposti alla crisi, quando non alla proletarizzazione, (parte delle PMI) iniziano ad avvedersi delle conseguenze del processo di integrazione europea, senza tuttavia cogliere la crisi nella propria dimensione piena.

Vi è certamente una tendenza, in queste componenti, ad utilizzare l’euro come una sorta di parafulmine, per sfuggire alle proprie stesse responsabilità e per non fare i conti con i dogmi accettati. L’uscita dalla moneta unica se non accompagnata dall’abbandono delle politiche economiche liberali seguite in questi 20-30 anni non risolverebbe il problema della crisi totale in cui si dibatte il nostro paese.

Ciò non toglie che il processo reazionario che stiamo subendo abbia effettivamente nella Ue e nell’euro un suo significativo ingranaggio. E’ questo un dato reale che non può essere ignorato o derubricato con superficialità.

L’eurocrisi dimostra in modo chiaro il nesso, inscindibile, che corre tra le dinamiche proprie della lotta di classe e la questione nazionale, a partire dalla necessaria difesa della sovranità nazionale e del suo recupero, anche in ambito monetario. Se c’è un terreno di battaglia politica dal quale concretamente può ripartire una sinistra patriottica e di classe oggi è proprio questo.

Il sasso nello stagno

Lafontaine ha colto il meccanismo che tramite l’euro alimenta le politiche liberiste ed antipopolari. Per questo ha scorto l’unica alternativa praticabile nell’abbandono della moneta unica e nel ritorno alle monete nazionali. Questa non è ancora la posizione della Linke, dove in molti continuano a sostenere la tesi un po’ usurata del no all’austerità ma sì all’euro, non cogliendo evidentemente il nesso che si è stabilito tra i due fattori. Non vogliamo entrare nel merito del dibattito politico che si svolge all’interno della sinistra tedesca, ma è oggettivamente sconsolante vedere che alcuni esponenti della Pds dell’ex DDR restino ancorati al dogma dell’euro. Caso emblematico (in tutti i sensi) ci pare quello del gorbacioviano Gysi, che da par suo non si dimostra reticente nel manifestare le proprie preoccupazioni sulla fine che farebbe la politica orientata all’export, che ha impugnato il capitalismo monopolistico tedesco dal giorno successivo all’Anschluss della DDR, nel caso in cui si desse seguito ai suggerimenti di Lafontaine.

Così, come non ha senso cercare compatibilità all’interno della logica imposta dalla politica dei tagli, ma ha senso contrastare alla radice la logica liberista che vuole vedere nella spesa pubblica un problema e non uno strumento, allo stesso modo non ha più senso (se mai lo ha avuto) costringersi in compatibilità impossibili da gestire, cercando una politica europea diversa ma all’interno dei paletti fin qui piazzati dai liberisti (tra questi paletti c’è l’euro).

La lettura data da alcuni esponenti pseudo-laburisti come Fassina circa una Ue costruita su basi liberiste da contrastare e una moneta unica che rappresenta l’unica scelta coraggiosa e positiva per l’integrazione europea3non sta, con tutta evidenza, in piedi.

Uscire dall’eurodisastro

C’è dunque poco da meravigliarsi nella convergenza trovata tra Pd e Pdl prima nell’appoggio a Monti e poi in quello a Letta. Per acrobazie intellettualoidi molto più azzardate si è ricorso in passato alla formula delle “affinità elettive”. Un po’ la sindrome che affligge i parenti che non si sopportano perché si somigliano.

Eppure, tempo fa, la coscienza del problema c’era. Erano stati proprio coloro che avevano rifiutato l’integrazione negativa nel sistema implicita nella svolta della Bolognina a impostare per tempo una campagna politica contro i trattati di Maastricht, per un’altra Europa. Ora occorre prendere coscienza del fatto che questa Ue non è riformabile e che per uscire dall’eurodisastro e rigettare le politiche liberiste e d’austerità vada recuperata la sovranità nazionale, anche in ambito monetario.

Non è possibile, appunto, sostenere una lotta contro le misure di austerità e non prendere chiaramente posizione contro la trappola costituita dall’unione monetaria e dai meccanismi perversi che questa ha innescato in un’area valutaria dove sin dall’inizio erano rilevabili ampie divergenze.

Lafontaine ha messo il dito nella piaga quando ha sostenuto il legame che corre tra euro, tentativo tedesco di egemonia, e regresso reazionario delle condizioni di vita nei paesi periferici e semiperiferici dell’eurozona:

“I tedeschi non hanno ancora capito che i paesi europei del sud, tra cui la Francia, saranno costretti dall'impoverimento economico, presto o tardi, a rispondere all'egemonia tedesca. Essi sono particolarmente sotto pressione a causa del dumping salariale praticato dalla Germania in violazione dei trattati europei sin dall'inizio dell'unione monetaria.

[…]

Oggi il sistema è fuori controllo. Come Hans-Werner Sinn ha scritto di recente in “Handelsblatt”, paesi come la Grecia, il Portogallo e la Spagna devono tagliare i costi [del lavoro] di circa il 20-30% rispetto alla media dell'Unione europea per raggiungere un livello approssimativamente equilibrato di competitività e la Germania dovrebbe aumentar[e i salari] di circa il 20%. Tuttavia gli ultimi anni hanno dimostrato che una tale politica non ha alcuna possibilità di essere attuata. Un aumento dei salari, necessario nel caso della Germania, non è possibile con le organizzazioni dei datori di lavoro e il blocco dei partiti neoliberisti, formato da CDU / CSU, SPD, i liberali e i Verdi, che non fanno che seguirli. Una diminuzione dei salari, che significa una perdita di reddito nell'Europa meridionale, e anche in Francia, dal 20 al 30%, porterà al disastro, come vediamo già in Spagna, Grecia e Portogallo.

Se i riaggiustamenti reali al rialzo o al ribasso non sono possibili in questo modo, diviene necessario abbandonare la moneta unica e tornare a un sistema che renda possibili le svalutazioni e le rivalutazioni, come avveniva con il predecessore della moneta unica, il sistema monetario europeo (SME). Si tratta fondamentalmente di rendere di nuovo possibili delle svalutazioni e rivalutazioni attraverso un sistema di cambi controllati dall’Unione europea. A tal fine, dei rigorosi controlli [alla circolazione] dei capitali sarebbero la prima misura inevitabile, per tenere sotto controllo i movimenti di capitali. Dopo tutto, l'Europa ha già attuato questa prima misura a Cipro”4.

Alla ricerca della sovranità perduta

L’ultimo rilievo relativo a Cipro riveste grande importanza. Divenendo sempre più acuta la crisi ed essendo soffocante il sistema di potere creato per soggiogare popoli e nazioni nella spirale di un indebitamento predatorio, il ritorno alla sovranità anche in ambito monetario andrà necessariamente accompagnato all’adozione di controlli che impediscano la libera circolazione dei capitali (come succedeva prima dell’ondata neoliberista degli anni Ottanta). Tale opzione viene scartata dal sistema mediatico come “irrealistica” e “impossibile” da attuare nell’era digitale, dove con un clic si possono potenzialmente spostare cifre astronomiche. Il recente caso di Cipro dimostra invece che il controllo dei capitali è possibile. E’ stata la stessa Bce a dimostrarlo quando ha stretto virtualmente d’assedio le banche dell’isola ribelle.

Dunque l’adozione di misure per uscire dalla crisi e chiudere la parentesi della reazione liberale è, almeno teoricamente, a portata di mano. Basterebbe essere coscienti dei problemi da affrontare e, soprattutto, avere la volontà di risolverli.

E’ ora evidente anche ai ciechi che alle forze di centrosinistra manca sia la lucidità che la volontà. Ragion per cui esse restano legate, mani e piedi, al carretto della reazione. Disgraziatamente vaste masse popolari mostrano ancora fiducia in queste forze ma, al punto cui siamo giunti, alimentare queste speranze da parte della sinistra patriottica e di classe sarebbe solo controproducente. Il velo di Maya è comunque destinato a cadere. E’ il momento della proposta, della battaglia.

La battaglia per il recupero della sovranità nazionale è il terreno del contendere oggi. Per invertire la tendenza reazionaria iniziata con la “reaganomics” 30 anni fa occorre frenare la “libera” circolazione dei capitali, riportare la banca centrale sotto il controllo della mano pubblica ed adottare tutte le altre misure che si riterranno necessarie guardando all’interesse collettivo della comunità nazionale (che è, in sostanza, quello delle classi popolari e degli altri segmenti di società che possono essere composti in un blocco sociale attorno al proletariato) e non quello delle oligarchie finanziarie transnazionali e della borghesia compradora ad esse legata.

Rigettare questa costruzione europea rappresenta necessariamente il primo passo. L’euro, che è il punto più alto e conseguente nella costruzione di questo Moloch reazionario, è un ostacolo concreto, come appare sempre più evidente a tanti economisti progressisti europei dal francese Jaques Sapir, al portoghese Amaral5, all’italiano Alberto Bagnai (autore nel merito di un trattato estremamente fruibile ed acuto che vale indubbiamente la pena di leggere dal titoloIl Tramonto dell’euro).

Molti partiti comunisti e operai della Ue hanno già assunto una postura di difesa della sovranità nazionale contro l’Unione europea (come il Pcp in Portogallo, ad esempio). Recentemente a Lisbona si è tenuto un vertice dei partiti della Sinistra europea (Izquierda Unida, Partito comunista portoghese, PCF e Akel) sul tema “Un’altra Europa, dei lavoratori, dei popoli”. A tale vertice è stato espresso il chiaro “rifiuto delle imposizioni sovranazionali che ledono il diritto di ogni popolo a decidere le politiche (economiche e altre) che siano a loro più utili”; il rifiuto del progetto di un’Europa federale e la difesa del principio dell’uguaglianza tra gli Stati e del diritto di veto degli Stati membri; “l’affermazione dello Stato come struttura determinante e di riferimento dell’economia”, etc…6

Con l’uscita di Lafontaine il quadro sembra finalmente poter allargarsi anche a parte della sinistra tedesca. C’è da augurarsi che, per una volta, la classe operaia tedesca non si lasci intruppare nella difesa degli interessi del proprio padronato ma sappia cogliere la connessione tra i propri interessi e quelli dei fratelli che sono posti oltre le sue frontiere.

E’ parimenti auspicabile che nel giro dei prossimi mesi la sinistra di classe, a partire dal piccolo e più cosciente nucleo di essa, prenda anche in Italia, finalmente, una posizione patriottica conseguente in linea con quella adottata nel vertice di Lisbona, ponendo fine alle ambiguità che ancora permangono e sostenendo la necessità di chiudere l’esperienza della moneta unica e di questo processo di integrazione europea. Di conseguenza, attuando le iniziative politiche ritenute più consone.

Alla costruzione di un’Europa dei popoli e delle patrie si potrà pensare in seguito, quando si sarà ripartiti. Ma senza popoli e patrie nessun altra Europa sarà possibile.

di Spartaco Alfredo Puttini

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NOTE
1 J.-P. Chevènement, La France est-elle finie?; Parigi, Fayard 2011
2 S. Fassina, Il lavoro prima di tutto: l’economia, la sinistra, i diritti; Roma, Donizelli 2012
3 Così il responsabile economico del Pd parla dell’euro nel suo libro: Il lavoro prima di tutto, op. cit.
4 Lo scritto di Lafontaine è riportato in francese sul blog di Jacques Sapir ed è accompagnato da alcuni suoi interessanti commenti: http://russeurope.hypotheses.org/1198 Una traduzione italiana è disponibile su “Voci dall’estero”: http://vocidallestero.blogspot.it/2013/05/euro-un-cambiamento-significativo.html
5 João Ferreira do Amaral ha scritto Porque devemos sair do Euro, del quale recentemente ha parlato anche Evans-Pritchard sul “Telegraph”, il suo articolo è disponibile in italiano: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11909
6 J. Ferreira, Per un’altra Europa; in: http://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-europa/22326-per-unaltra-europa.html