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Fermiamo il “pilota automatico”

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Mentre ci si arrovella sul nome del prossimo presidente della Repubblica, il famoso “pilota automatico”, di cui ci ha parlato Mario Draghi, ovvero il governo occulto dell’economia, prosegue indisturbato il suo lavoro. Il problema è che in assenza di vigorose inversioni di percorso, presto o tardi andremo a sbattere

La politica ufficiale e i mass media si arrovellano sul misterioso identikit del prossimo Presidente della Repubblica, che dovrebbe mettere d’accordo tutti, almeno da Vendola a Berlusconi, passando per il Pd e contando sul contributo degli stessi grillini. Il tutto per arrivare alla sua elezione entro i primi tre scrutini quando ci vuole la maggioranza dei due terzi, il che potrebbe permettere poi una soluzione tutta in discesa del rebus del governo, visto che le elezioni a giugno non le vuole proprio nessuno, neppure Grillo essendo già in discesa nei consensi. Intanto il famoso “pilota automatico”, di cui ci ha parlato Mario Draghi, ovvero il governo occulto dell’economia, prosegue indisturbato il suo lavoro.

Anche perché trova una spalla efficace nel governo Monti tuttora in carica per l’ordinaria amministrazione, che però tale non è affatto. Non c’è dubbio che i 5Stelle abbiano ragione a chiedere l’insediamento delle Commissioni permanenti e che faccia loro bene, come a chiunque, tenere sedute serali di lettura collettiva della Costituzione. Ma farebbero ancora meglio, visto che ne hanno i numeri, a presentare, ai sensi dell’art. 94 della suddetta Costituzione, una mozione di sfiducia al governo che il Parlamento dovrebbe discutere.

Invece continuiamo ad essere in una situazione mostruosa sotto il profilo istituzionale. Abbiamo un governo che non è stato sfiduciato dal precedente parlamento, ma ha rassegnato le dimissioni – qualche ministro lo ha fatto anche individualmente, come il disastroso Terzi –, che non sente il bisogno di verificare il rapporto di fiducia con il nuovo Parlamento in virtù delle varie teorie della prorogatio in cui tutti sguazzano, e intanto produce atti di importanza decisiva per la politica economica degli anni a venire.

Il 10 Aprile, Monti ha presentato il Def (documento economico e finanziario) e il Pnr (il piano nazionale di “riforme” che avrebbe durata triennale), per inviarli a Bruxelles (da noi pare li discuta la Commissione speciale, non essendoci quella permanente per il Bilancio), ove prima Ecofin e poi il Consiglio europeo elaboreranno su quella base, tenendo conto delle previsioni di Eurostat e della Commissione economica, le loro vincolanti raccomandazioni, in modo tale che il futuro governo possa partorire – è il caso di dire con “parto pilotato” – la nuova legge di stabilità (la ex finanziaria) da inviare nuovamente in sede europea entro il 15 ottobre per ricevere le correzioni vincolanti da apportare prima dell’approvazione definitiva. Certo, è possibile una nota di variazione entro la prima decade di settembre, nel caso che si chiuda la procedura per debito eccessivo aperta nei confronti dell’Italia nel 2009. Ma il percorso e le sue tappe sono già tracciate da stazioni e binari ben precisi. Un tragitto cui la democrazia è totalmente estranea. Infatti, per dirla con De Gregori, essa assomiglia più a un bufalo, che può “scartare”, non certo a una locomotiva senza neppure il fascino del ciuffo di vapore.

Le forze politiche di questo non sembrano curarsi. Le reazioni al Def sono tiepide, o confinate a qualche volonteroso responsabile economico di partito. Eppure già in base al Def si prevede la necessità di una manovra correttiva, mentre è evidente l’assenza di risorse per tutti gli interventi più urgenti, quali gli ammortizzatori sociali. Il pilota sarà anche automatico, ma, in assenza di vigorose inversioni di percorso, andrà a sbattere. Introducendo il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni per le imprese, cosa peraltro necessaria per pagare i loro lavoratori, il debito totale salirà a cifre inconsuete, pari a oltre il 130% a fine 2013, mentre il calo del Pil per lo stesso anno dovrebbe aggirarsi sul meno 1,3% e la spesa per interessi continuerà a salire fino a raggiungere il 6% nel 2016. La disoccupazione intanto lievita. Le cifre ufficiali, che sottostimano il fenomeno reale, ci parlano di una crescita dall’8,5% al 12%, tra il 2008 e il 2012. Complessivamente i senza lavoro, se sommiamo i disoccupati, i cassaintegrati e gli scoraggiati superano gli 8 milioni di persone. La disoccupazione giovanile è ben al di sopra del 35%.

Non contenti di ciò, i fautori del pilota automatico brindano alla discesa degli spread e al rialzo della Borsa. Fenomeni illusori e soprattutto dovuti a cause del tutto esogene. La gravità della situazione europea è in parte temperata dalla grande immissione di liquidità in atto negli Usa e in Giappone. In quest’ultimo paese il governo di centro destra di Abe con la propria politica monetaria espansiva ha ridotto a zero il valore dei suoi titoli di stato, così che i capitali posteggiati nel Sol Levante migrano in Europa e ne hanno beneficiato anche le aste dei nostri Btp. Se quindi la finanzia rifiata, l’economia reale cola a picco.

Né si può sperare sulla clemenza dall’Europa, come sembra fare Bersani. Proprio gli ultimi atteggiamenti e le parole del commissario europeo Olli Rehn dedicate al nostro paese fugano ogni dubbio: se si vuole salvare la Francia non si può allentare la presa sull’Italia. Il debito è sempre meno sovrano, così come la sovranità popolare è un ricordo del passato, visti gli interventi della nuova governance europea con il fiscal compact e il two pack. Il debito dei paesi del sud dell’Europa (ma si può includere tra questi anche la stessa Francia) è tale che non potrà mai essere pagato dai singoli, non può che diventare un problema continentale, da affrontarsi tramite processi di ristrutturazione, di mutualizzazione, di haircuts. Il che presuppone una politica europea – a cominciare dalla ridiscussione dei trattati – diametralmente opposta a quella del pilota automatico. A qualcosa che getti subito sabbia nei suoi ingranaggi. Del resto sia il fiscal compact che il two pack presentano non poche contraddizioni persino con il quadro giuridico europeo attuale, come ha osservato Giuseppe Guarino.

Non lo può fare un governo o un governicchio che sia, il cui unico compito sarebbe quello di tirare la primavera del 2014, quando le elezioni anticipate diventeranno difficilmente evitabili, votandosi comunque per quelle europee. Ma come si sa le urne non hanno promosso alcuna forza in grado di esprimere un simile programma. Questo va costruito e gestito a livello della sinistra diffusa e dei movimenti reali. Imporre l’idea di un piano del lavoro – Luciano Gallino ha avanzato una precisa proposta in questo senso – sarebbe già un enorme passo in avanti. Si tratta di non contrapporre questa a quella di un reddito di base, ma farle marciare assieme, poiché solo da un’accresciuta occupazione possono giungere le risorse reali per un reddito universale e allo stesso tempo quest’ultimo può permettere la ricerca di un lavoro dignitoso in un’epoca in cui il lavoro è scarso.

Questo dovrebbe essere il tema che sta in cima e che sostanzia un vero piano di riforme. Non importa qui litigare se fare un’agenzia del lavoro pesante – capace di assumere immediatamente i disoccupati – o leggera, tale da allocarli in specifici piani di lavoro. Si tratta di decidere, ad esempio, se la sistemazione del dissestato quadro idrogeologico del nostro paese merita di essere considerato un obiettivo pluriennale; se allo stesso modo lo è un piano nazionale dei trasporti, al posto della Tav; o la diffusione delle energie rinnovabili; o la eliminazione di ogni forma di digital divide; o lo sviluppo della ricerca teorica e applicata per frenare la migrazione dei giovani; o la difesa e la valorizzazione dell’ambiente naturale e delle produzioni agricole; per non parlare della tutela dell’enorme patrimonio artistico di cui disponiamo.

Le idee, anche più originali e innovative di quelle che ho qui esemplificato, non mancano, sia nei movimenti che nelle esperienze professionali o nelle ricerche intellettuali. Si tratta di compiere un lavoro non di semplice giustapposizione, ma di costruzione di coerenze interne, di quel filo logico politico che fa di un insieme di rivendicazioni tutte giuste un vero credibile programma di trasformazione che indica la via di uscita dalla crisi.

Ricostruire la sinistra, farla finita con la sottomissione intellettuale al neoliberismo nelle sue molteplici varianti, scrollarsi di dosso l’ossessione della governabilità che si risolve nella più prosaica pratica del meno peggio che perpetua l’esistente all’infinito, spezzare il circolo vizioso delle identità autoreferenziali, significa lavorare per la costruzione di un simile programma e di una vasta rete organizzata di donne e uomini che ci credano cominciando a metterlo in pratica.

di Alfonso Gianni